Cosa ne sarà di Brexit probabilmente non lo sa ancora nemmeno chi sta celebrando le sue trattative. Il divorzio tra Londra e Bruxelles procede infatti
inesorabilmente verso le scadenze fissate dai trattati europei, ma non mancano tensioni interne a portare scompiglio su entrambe le parti, ancora lontane da un accordo.
E se entro marzo 2019 la premier britannica Theresa May dovrà stappare il sì ad un accordo sull’uscita, pena accettare il salato conto del no deal, da più parti si prova a rimettere in discussione l’esito di quel voto popolare.
Cosa imparare, quindi, dalla turbolenta notte che ha aperto un futuro differente per Europa e Regno Unito? A Zizzania (giù il podcast da ascoltare) lo abbiamo chiesto al prof. Tim Parks, scrittore e docente dell’Università IULM.
Nato a Manchester e cresciuto a Londra, il romanziere e collaboratore del New York Times vive in Italia da 37 anni ed oggi osserva Brexit da un punto di vista privilegiato. Che, pur senza il suo voto nel 2016, tanto rivela degli animi dei suoi connazionali. Tra il grottesco in cui governo e popolo hanno trascorso, loro malgrado, con un piede dentro ed uno fuori dall’Europa unita. Forse sperando fosse almeno british humor.
Zizzania, puntata del 14 dicembre – Ospite prof. Tim Parks
[Di seguito un estratto testuale della puntata di Zizzania, disponibile integralmente al podcast sopra]
Prof. Parks, lei che è nato a Manchester e cresciuto a Londra, come ha vissuto l’esito del referendum del 2016, con cui la Gran Bretagna ha scelto per il divorzio con l’Unione Europea?
Io avrei votato remain, ma non mi ha per niente sorpreso il risultato: si vedeva da anni questa insofferenza verso la Comunità Europea. Per quello che è diventata, non per quello che era anche solo dieci anni prima. Poi, ovviamente io sono in una posizione speciale, perché vivendo da trentasette anni qua in Italia rischio di diventare un extracomunitario. E da poco ho fatto domanda per la cittadinanza italiana.
L’UE non è la fine della storia, ci dice. Il modo in cui sono state scritte le regole della procedura di recesso fanno capire che in Europa qualcuno lo pensa. ANon è forse che la Gran Bretagna è stata visionaria in questo, anticipando tutti gli altri 27?
È chiaro come in Gran Bretagna ci sia chi non crede nel futuro dell’Unione Europea, perché è evidente che come Istituzione ha smesso di evolversi dieci-quindici anni fa, ora è piuttosto statica. Però è molto interessante quello che è stato detto del famoso “articolo 50”: non è stato profondamente previsto. Perché c’era un po’ l’idea del “noi abbiamo fatto la buona comunità, tutti quelli che sono contro di noi sono per forza nazionalisti vecchio stampo”. Ed era quasi non permesso, intellettualmente, immaginare relazione tra i vari stati che non sia quello della burocrazia.
Quando abbiamo parlato un po’ di Brexit prima, a microfoni spenti, lei ci diceva che la Gran Bretagna regge perché ha una grande tradizione e noi concordiamo su questo. Avete il sesto Pil mondiale, ma che dista anni luce da quello di Usa, Euro Area e Cina. Non vi sembra un po’ rischiosa l’idea di pensare da soli?
Noi crediamo che un Paese che, in termini di Pil, è il sesto al mondo debba per forza far parte di un’organizzazione che decide varie politiche commerciali, economiche, mentre Svizzera o Norvegia possono tranquillamente starne fuori? In questo ragionamento traspare la grande paura che per esistere sia obbligatorio far parte di un grande blocco e che ci voglia uscirne voglia per forza isolarsi. E la Gran Bretagna non è mai stato un Paese che si è voluto isolare dagli altri, per cui resta ancora oggi democratico a tal punto che prima o poi troveranno una soluzione che vada bene più o meno a tutti.
La cartina del voto su Brexit ha mostrato una forte differenza tra la capitale ed il resto dell’Inghilterra, tra la Scozia ed altre parti del paese. Brexit non rischia di aggravare queste contraddizioni, ad esempio nella vostra più che multietnica capitale?
Sì, mi sembra questa la chiave: la Gran Bretagna ha sempre accettato numeri enormi di cittadini di altre nazionalità. In primis perché ha come lingua madre quella che ora è quasi la seconda lingua di molti europei. E poi perché in genere gli inglesi non hanno problemi ad accettare gente da fuori: il numero di studenti italiani che stanno facendo un Dottorato lì è enorme. E proprio questo essere aperti che fa pensare alla Comunità Europea come un qualcosa di chiuso, piuttosto che il contrario.