Mediterraneo è, per molti, IL film. Uscito nel 1991, vinse l’Oscar – per alcuni critici ritenuto eccessivo – al miglior film in lingua straniera nel 1992. Liberamente ispirata al romanzo Sagapò di Renzo Biasion, la pellicola è diretta dal regista italiano Gabriele Salvatores, accompagnato – come sempre – nella direzione della fotografia dal collega Italo Petriccione. Ma si tratta solo di uno splendido film o in esso è possibile analizzare un irrequieto e, più comune di quanto si pensi, stato d’animo?
Un occhio alla trama
Ambientato nel giugno del ‘41, durante la disastrosa offensiva dell’Italia alla Grecia, il film vede come protagonista Syrna (in realtà Kastellorizo), una piccola isola dell’Egeo all’apparenza disabitata destinata a punto di osservazione con “importanza strategica zero”, su cui sbarcheranno otto impavidi militari. Il luogo si dimostrerà essere tutt’altro che abbandonato e completamente estraneo al conflitto in corso. Proprio per questa ragione, non si può far riferimento a Mediterraneo come a un film di guerra: i soldati entreranno a stretto contatto con la popolazione locale, a tratti dimenticandosi il motivo della propria presenza lì. Tutti vivranno come un sogno la personale dipartita dal reale.
Passati tre anni dall’approdo della piccola pattuglia italiana, un aereo da ricognizione sarà costretto a compiere un atterraggio di emergenza. Il pilota aggiornerà i suoi colleghi in merito a tutto quello che è accaduto in Italia e nel mondo in quel lasso di tempo in cui loro avevano avuto modo di estraniarsi completamente dalla guerra, dal fascismo, dagli Americani… Gli otto italiani seguiranno poi strade e destini diversi, chi tornando in Patria sfruttando l’occasione di essere finalmente stati ritrovati, chi restando sulla tanto amata e remota isola.

Un film generazionale
Alla fine della pellicola compare una frase: “Dedicato a tutti quelli che stanno scappando”. E forse anche grazie a questa dedica, il film fu subito un successo, amatissimo dalla generazione di quei trentenni-quarantenni un po’ sperduti in un’epoca di progressivo crollo di certezze politiche, economiche, sociali e sentimentali.
L’opera cinematografica, più che per la trama a tratti anche parecchio spassosa, è rinomata infatti per la dimensione esistenziale che assume. I protagonisti si ritrovano, lontani dalle proprie origini, a riconsiderare il proprio esistere e il mondo per come li conoscono. L’apparente tono da commedia autorizza i personaggi a celarsi in maniera non pesante dietro i propri sviluppi psicologici, lasciando nell’osservatore una nota dolce-amara.

“Avevamo tutti, più o meno, quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo…”. Questa la celebre frase di apertura del tenente Montini, che definisce con precisione la situazione di una generazione nel complesso, al di là di tempi e avvenimenti storici. Fin da subito, inoltre, incolla lo spettatore allo schermo, coinvolgendolo emotivamente ancor prima che visivamente. Il film vuole rivolgersi – in maniera quasi stereotipata, ma forse del tutto veritiera – a chi ha quell’età di mezzo, che sembra non essere abbastanza per permettergli di cambiare il mondo, né sufficiente per giustificargli di fregarsene.
Il tema della fuga
Salvatores ben analizza il valore dell’auto-esilio, protagonista principale più degli attori stessi. È questa la perfetta cornice entro cui costruire un desiderio di allontanamento dalla comunità moderna. Estraniando completamente i soldati dalla ricezione di notizie e contatti esterni, gli otto uomini sono in grado di meditare su loro stessi come non gli era mai stato concesso prima. La Grecia, in particolare, ritratta nella propria magnifica immobilità storica e culturale, si rende la tela perfetta per creare un – all’apparenza stridente – connubio con la modernità e la brutalità della guerra.
Si tratta inoltre una valida rappresentazione dell’italiano medio (dell’epoca?), abbandonato dal proprio Paese a uno stato di degrado e noncuranza.

È Salvatores stesso a dichiarare, in merito a questo e alla coppia di film usciti nei due anni precedenti, la sua volontà di rappresentare il disancoraggio dal concreto:
“Non ho mai voluto parlare di un’evasione o di una vacanza, o l’avrei chiamato Méditerranée… La fuga non è il rifiuto della responsabilità ma la ricerca della libertà e di un posto nuovo: più che di una trilogia della fuga, mi piace parlare di trilogia del cambiamento. […] Mi ha sempre colpito questa doppia dimensione della vita: a fianco di quella razionale e illuminata quest’altro mondo misterioso e buio, meravigliosamente bello ma terrorizzante. Nei tre film i protagonisti grazie a uno spostamento trovano se stessi e valori che avevano perso, o ne trovano degli altri. Turné sulla spiaggia, Marrakech Express nel deserto, Mediterraneo sull’isola, per tutti avviene in quegli stessi luoghi deserti dove i saggi, i pensatori e persino Gesù Cristo potevano ritrovare se stessi o scoprire qualcosa di nuovo.”
Invero, i protagonisti per l’intera durata della pellicola appaiono costantemente fuori posto e questa esistenza fuori contesto, questo ostinato rifiuto della realtà continueranno a viverlo anche dopo il ritorno in Patria, evidenziando come la fuga non sia soltanto fisica, ma, soprattutto, emotiva e psicologica. Dopotutto, il lungometraggio inizia con una citazione di Henry Laborit che ben esplicita fin dal principio questa esigenza umana: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”.
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