Nello scorso articolo ho parlato di Gloria Antognozzi (se ve lo siete persi potete leggerlo cliccando qui) che, oltre ad essere una performer LIS, è anche CODA .
Ma cos’è un CODA, o meglio, chi sono i CODA? In questo articolo approfondirò meglio l’argomento anche da un punto di vista più vicino: il mio.
Se dopo aver letto “CODA” avete pensato subito al film “CODA – segni del cuore”, tranquill*, è proprio quello di cui stiamo parlando. Se invece non ne avete proprio idea, permettetemi di raccontarvelo.
Chi è un CODA?
Etimologicamente parlando un CODA è, tipicamente, una persona udente (che possiede la facoltà dell’udito, che sente) figlio di uno o entrambi i genitori sordi.
L’acronimo, che sta per Children Of Deaf Adults, è internazionale ed è nato negli Stati Uniti nel 1983, coniato da Millie Brother, fondatrice poi dell’organizzazione CODA International. Con la sua ricerca, condotta alla Gallaudet University, dimostrò che circa il 90% dei figli nati da genitori sordi erano udenti. Lei stessa era uno di loro e per questo volle unire quel gruppo disperso di persone come lei con lo scopo di potersi sentire parte di un “mondo” tutto loro.
Oggi CODA International conta tantissimi iscritti, creando una rete di conoscenze in giro per il mondo con le varie sedi (tra cui quella italiana a Roma) e, soprattutto, creando quello che poi è diventato un legame familiare e globale, un posto dove sentirsi sempre a casa.
L’obiettivo dell’organizzazione è esplicitato sul loro sito e che, qui sotto, riporto:
CODA celebrates the unique heritage and multicultural identities of adult hearing individuals
with deaf parent(s)
(CODA celebra il patrimonio unico e le identità multiculturali di persone udenti con genitori sordi)
CODA International
Essere CODA – la mia esperienza
Come Millie Brother e Gloria Antognozzi, io stessa sono CODA.
Se avete già visto qualche video della rubrica “Pillole di LIS” potrebbe esservi sorta la domanda sul come io sappia la Lingua dei Segni, e il motivo è proprio questo.
Sono udente, mentre i miei genitori sono nati sordi come la maggior parte dei miei parenti. Spiegare il come io sia nata diversa da loro è davvero complicato, ma in breve è tutto scritto nel DNA.
Non a caso ho scritto di essere nata “diversa” dai miei genitori, perché quando nasci in una famiglia in cui tutti non sentono e parlano con la LIS alla fine l’unica strana sei tu. Se per il resto del mondo è la tua famiglia ad essere considerata disabile, per me, e forse mi sento di parlare un po’ anche a nome di tanti altri CODA, è come se la “disabile” fossi io.
Sono quasi sicura sia un sentimento molto condiviso nella comunità, basti pensare ai due film usciti, uno del 2014 e l’altro del 2021: “La famiglia Bélier” e, il remake, “CODA – segni del cuore”.
La prima volta che vidi un film che parlava di CODA
Quando nel 2014 uscì il primo io avevo circa 11/12 anni, e ricordo perfettamente l’emozione che provai quando scoprì che il film parlava di una ragazza come me: udente, con la famiglia sorda e che amava da impazzire la musica e, soprattutto, cantare. Mi ero talmente tanto rivista nella protagonista che inevitabilmente durante la proiezione qualche lacrima mi scese. Era come se parlasse della mia storia.
Come riuscivo a comprendere Paula Bélier, empatizzai altrettanto con Ruby Rossi di “CODA – segni del cuore”, specialmente, per chi avesse visto il film, nella scena in cui dopo una discussione a tavola chiede alla madre (l’attrice sorda Marlee Matilin) se quando rimase incinta avrebbe voluto che nascesse sorda come i genitori.
Sembra assurdo ma anche io mi sono posta spesso questa domanda, non perché come Jackie Rossi mia madre odiava gli udenti, ma mi chiedevo se essere sorda come lei avrebbe rafforzato il nostro legame e ci avrebbe permesso di comprenderci meglio.
Alla ricerca del mio posto nel mondo
Ho sempre frequentato i luoghi dei sordi, sono sempre stata parte della comunità e conversavo tranquillamente con tutte le persone sorde, bambini o adulti che fossero, eppure il mio essere udente non mi faceva sentire adeguata nel mondo sordo. Ero sempre quella diversa.
Conseguentemente allora pensavo che avrei trovato il mio posto nel mondo degli udenti: a scuola, nei dopo scuola o nei centri estivi. Invece no, anche in quel caso appena veniva fuori che avevo i genitori sordi e sapevo la lingua dei segni ero sempre guardata come “la strana, con la famiglia strana” non solo perché era assurdo per molti che avessi la famiglia sorda ma perché i miei genitori, come molti sordi, non hanno una voce consueta; ad un orecchio udente emettevano dei suoni senza senso ma a cui io ero abituata da una vita intera.
Mi sentivo inadeguata in entrambi i mondi ma facevo allo stesso tempo parte di essi. Non trovavo il mio posto, non avevo una mia “comunità”, ero né carne né pesce.
La scoperta della comunità dell’associazione CODA Italia
Scoprire l’associazione CODA Italia mi ha dato la speranza di cui avevo bisogno. Non ero l’unica a sentirmi in quel modo, e questo era abbastanza per sentirmi meglio. Quando raccontavo come mi sentivo capì che non succedeva solo a me ma anche ad altre persone di età molto differenti dalla mia. Improvvisamente non ero più sola, finalmente mi sentivo capita e compresa. Facevo davvero parte di qualcosa che sentivo davvero mio.
La mia normalità
Per molti avere i genitori sordi è una “figata”, oppure può suscitare un sentimento di dispiacere e pietà. Frasi come: “Oh, mi dispiace che i tuoi siano sordi” o “Che figo! Così non sentono se parli male di loro”, le ho sentite un sacco di volte.
Mi chiedo sempre perché le persone si dispiacciano. Io non conosco altra normalità al di fuori di quella che è la mia, anzi, mi chiedo spesso come dev’essere avere i genitori udenti. Questo per me è qualcosa di davvero strano.
Vedere i miei amici che la sera abbassano il volume del televisore al minimo per non disturbare i genitori o mi dicono: “Non posso parlare a telefono altrimenti do fastidio ai miei, sentiamoci per messaggio”, per me è impensabile; io la sera guardo tranquillamente la tv e parlo anche a voce alta, non curandomi della presenza di mia madre.
Comunicare con i sordi tramite la luce e le vibrazioni
La parte più divertente arriva quando racconto o mostro come comunico con i miei genitori.
Per chiamare i miei genitori, a breve distanza, dato che non posso chiamarli a voce devo sbattere mani e piedi contro il tavolo o il pavimento. Se sono in un’altra stanza inizio a spegnere e accendere le luci della stanza con gli interruttori per attirare la loro attenzione (dato che i sordi hanno la vista molto più sviluppata). Il citofono a casa non solo emette il classico suono ma è collegato all’impianto elettrico della casa per cui iniziano ad accendersi e spegnersi tutte le luci di casa quando suonano il campanello.
Queste e tante altre cose.
Ho imparato anche a mandare dei messaggi “semplificati” su WhatsApp che siano comprensibili ai miei genitori, dato che a volte fanno fatica a comprendere i messaggi in italiano corretto, scrivendoli con la stessa grammatica che userei per parlare in Lingua dei segni.
Le difficoltà
Sembra tutto molto simpatico, e lo è la maggior parte delle volte, ma come ogni cosa nella vita c’è anche un’altra faccia della medaglia.
Rispetto agli altri miei coetanei sento di esser dovuta crescere prima del dovuto e di aver fatto le cose con il doppio della fatica. Essere nati CODA vuol dire anche iniziare a parlare sentendo le parole storpiate che dicono i tuoi genitori. E così al posto di “stipendio” dicevo “dispedio”, al posto di “ripostiglio” “responiglio” e al posto di “folle” (quello della macchina) “full”. Tutte le cose che imparavo a scuola e che magari non capivo, a una certa classe scolastica in poi, smisi di chiedere spiegazioni ai miei genitori che su tante cose sapevano meno di me. Fin da piccola, come succede a molti bilingue, ho fatto l’interprete a porta di mano dei miei genitori, anche in luoghi e contesti in cui un bambino non capisce niente: dal dottore, chiamare le società di gas e luce elettrica per disdire il contratto, mandare le malattie in ufficio da parte dei genitori; chiedere informazioni riguardanti la macchina al meccanico… e la lista sarebbe ancora molto lunga.
Il voler essere d’aiuto e far felice il prossimo
Poi in realtà ho anche dei bellissimi ricordi anche molto teneri.
Quando ero piccola guardavamo il telegiornale e io mi mettevo di fianco al televisore e traducevo le notizie. Ancora non c’era completa accessibilità in tv con i sottotitoli e quindi mi fingevo un’interprete.
O ancora, delle recite scolastiche delle elementari ne ricordo perfettamente una di Natale in cui con la classe avremmo dovuto cantare. Il giorno della recita vedevo davanti a me tutti i genitori che ascoltavano sorridendo i propri figli. Vedevo anche mia mamma, che sorrideva non capendo niente, allora iniziai a tradurre la canzone in Lingua dei segni, in modo molto timido, così che potesse vedermi e capire.
Fu in quel momento che da un sorriso forse di compiacimento, vidi un sorriso VERO sul viso di mia mamma.
È per quel sorriso che cerco sempre di fare informazione sui sordi e la Lingua dei segni in qualunque contesto, compreso l’ateneo.
È questo il vero obiettivo di “Pillole di LIS“.