27 gennaio, Giorno della Memoria: 80 anni da qui ad Auschwitz

27 GENNAIO – Oggi viene ricordato come “Giorno della Memoria“: così, da ottant’anni, vengono ridipinte le vittime delle stragi naziste avvenute dentro e fuori i campi di sterminio di Auschwitz, Mauthausen, Treblinka… Non solo questo. Il 27 gennaio è preso ad esempio affinché non si creda più di non poter imparare dagli errori del passato, che (spesso) “è metro di tutte le cose“.

Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto

Primo Levi in aprile scriveva: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Lo aveva scritto nel 1986, nel suo libro I sommersi e i salvati, dopo quarant’anni che erano passati da quel 27 gennaio 1945 e dalla liberazione ad Auschwitz dei prigionieri sopravvissuti.

La ricorrenza, che anno dopo anno torna presente sui banchi di studenti e presidenti, è in realtà in vigore da molto meno tempo di quel che si crederebbe. Risale infatti appena agli anni Duemila l’emanazione di una legge che, nei termini delle Nazioni Unite, sarebbe diventata “Giorno della Memoria”. 

Si legge così sulla pagina dedicata del sito web di ONU Italia:

Richiamando la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ribadisce che “l’Olocausto, che provocò l’uccisione di un terzo del popolo ebraico e di innumerevoli membri di altre minoranze, sarà per sempre un monito per tutti i popoli sui pericoli causati dall’odio, dal fanatismo, dal razzismo e dal pregiudizio”. (…) L’Olocausto è stato un punto di svolta nella storia, che ha spinto il mondo a dire “mai più”. Il significato della Risoluzione (n.d.R., il riferimento è alla Risoluzione 60/7 firmata il 1° novembre 2005) è quello di far in modo di ricordare i crimini del passato per impedire che si ripetano nel futuro 

La Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto” viene celebrato a partire dal luglio di 25 anni fa, in Italia, e cinque anni più tardi, a novembre, anche dal resto del mondo.

Il 27 gennaio come data simbolo

Perché si scelse il 27 gennaio come data ricorrente da evidenziare sul calendario? Per convenzione, L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nell’anno di adozione della Risoluzione 60/7 a cui si è fatta menzione, optò per una data “simbolo”. Il 27 gennaio 1945, infatti, le truppe dell’Armata sovietica (l’Armata Rossa contro cui si schierarono le truppe e le Einsatzgruppen tedesche all’alba – e al subitaneo tramonto – dell'”Operazione Barbarossa“) entrarono, sfondandone i cancelli ferrosi, nel campo di sterminio di Auschwitz. Una frase ad accoglierne l’ingresso coi carri e i soldati: “Arbeit macht frei“, “Il lavoro rende liberi“.

Dopo la liberazione di Auschwitz, si poté dire chiuso – almeno in parte – un capitolo buio della storia mondiale. Il campo, che era già stato evacuato dalle SS naziste, risultò spoglio di qualsiasi morale o senso di umanità. Di questo ci si rese conto subito, e il tempo dato alle opinioni pubbliche e politiche di vedere e di toccare con mano la realtà degli stermini fu sì sufficiente a calcificarne la memoria.

L’entrata del campo di sterminio di Auschwitz, dove si riporta la scritta in tedesco: “Il lavoro rende liberi”. Da IO Donna

Che cosa resta: la Shoah tra letteratura, teatro e arti visive

La “catastrofe” a cui si fa riferimento con il termine “Shoah” derivato dall’ebraico, ha a che fare con secoli di condotta antisemita perpetrata nei confronti del popolo di Abramo. La letteratura, oltre che la storia tout court, si è riempita di testi e di testimonianze che lasciano detto della questione. Il sopracitato I sommersi e i salvati di Primo Levi, insieme al suo più grande lavoro, Se questo è un uomo, sono due dei tanti esempi che si possono proporre nel campo della letteratura scritta. Non solo: nel caso di Levi, la sua esperienza come prigioniero del campo di lavoro di Monowitz (questo, incluso quello di Birkenau, facente parte del grande complesso polacco di Auschwitz), lo porta a maturare la parola in senso più ligio alla realtà dei fatti che furono. Ma la lista di titoli non si ferma a questi due. Il Diario di Anna Frank, divenuto lettura integrale di un pezzo di storia raccontata attraverso gli occhi di un’adolescente, resta, fra tutti, il pezzo che completa il puzzle.

Anche il cinema, l’arte e il teatro vogliono prendere parte al ricordo: Il primo lo fa con Schindler’s List (Steven Spielberg, 1994), se non quando con La vita è bella (Roberto Benigni, 1997) o Il bambino con il pigiama a righe (Mark Herman, 2008); l’arte attraverso le opere di Felix Nussbaum, deportato e spettatore, ancorché vittima, della tragedia nazista; infine, il teatro, con Stefano Massini in Processo a Dio, Martin Sherman in Bent sulla deportazione degli omosessuali, e Bertolt Brecht in Terrore e miseria del Terzo Reich.

Musica canta

Francesco Guccini, cantautore italiano, realizzò nel 1970 una sua versione della canzone dei Nomadi del 1966. L’artista, noto per riuscire a trattare temi complessi e delicati con un linguaggio poetico, portò al brano enorme successo, tanto da dimostrare la sua universalità venendo tradotto in diverse lingue. 

Il brano, Auschwitz è una delle prime canzoni italiane a trattare il tema dell’Olocausto, invitando a riflettere sugli orrori della guerra. Guccini racconta la storia dagli occhi di un bambino ebreo, morto all’interno dei campi di concentramento, utilizzando uno stile semplice e ripetitivo, come fosse una filastrocca, cercando di amplificare la sofferenza di un bambino, la cui innocenza è destinata a svanire. 

Internazionalità della musica

Zog nit keymol (Non dire mai) di Hirsh Glik è il brano, il lingua yiddish, che rappresenta una canzone manifesto di speranza e resistenza, in uno dei momenti più bui della storia umana.  Il poeta ebreo lituano, Hirsch Glick, e membro della resistenza ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale, decise di riprendere la melodia della canzone To Varsavia di Dmitri Pokrass, e adattarla al testo scritto da lui nel 1943, ispirato dalla notizia della rivolta del ghetto di Varsavia.

Destinato successivamente a diventare l’inno dei partigiani ebrei, il brano venne cantato dai partigiani ebrei nei campi di battaglia e nei ghetti, rappresentando una sfida contro l’opposizione nazista. 

Hirsh Glik mirava a creare un inno che incitasse alla resistenza, invitando all’azione e a mantenere la speranza anche nei momenti più bui. Il titolo stesso riflette la determinazione del popolo ebraico, nonostante sembri non esserci via d’uscita. 

Nello stesso anno, il poeta ebreo fu deportato e giustiziato a soli 22 anni. Il brano, tradotto in diverse lingue, è stato interpretato in concerti commemorativi dedicati alla Shoah, rappresentando un simbolo universale di lotta per la libertà e della resistenza contro l’oppressione.

Immagine in evidenza: Repubblica Bologna

Autori

  • Mi chiamo Giulia, sono studentessa al 3° anno della Facoltà di Comunicazione, Media e Pubblicità. Mi interesso di giornalismo e critica, sono illustratrice amatoriale e, musicalmente, batterista. Abitando in Brianza, ho imparato a conoscere Milano grazie allo IULM, sperimentando e migliorando le mie capacità creative e tecniche, che mi portano a scrivere oggi per il blog della radio universitaria.

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