“Un uomo chiamato Bob Dylan”: intervista a Ezio Guaitamacchi

«Un uomo chiamato Bob Dylan è un viaggio alla scoperta dell’uomo e dell’artista». Domenica 13 ottobre è stato presentato sul palcoscenico della Triennale di Milano uno spettacolo che omaggia l’artista statunitense, i suoi successi e la sua personalità sfuggente. Per questa occasione, vi riportiamo l’intervista all’autore e interprete Ezio Guaitamacchi.

La serata: un vis-à-vis con Bob Dylan (o quasi)

La recita del “bardo di Duluth” è un momento magico, che si fissa nel tempo, nella conca di poltrone della Triennale di Milano, e che conquista il pubblico con un’interpretazione perfetta. Ma il bardo non è presente in sala: sono i suoi compagni di giovinezza, i suoi primi amori e le sue canzoni a parlare per lui.

Su uno schermo alle spalle del palco scorrono immagini della musica, dell’arte e del cinema di Bob Dylan. Alle voci ci sono Brunella Boschetti, con le riproposizioni dei brani più famosi dell’artista, e al piano Andrea Mirò, interprete di Joan Baez, che accompagna l’intero spettacolo con interventi sarcastici e scorci di vita personale. Infine, seguito dalle dolci chitarre di Ezio Guaitamacchi, c’è Davide Van De Sfroos (prossimamente in concerto all’Unipol Forum di Assago) che qui impersona Bob Neuwirth, amico di vita di Bob Dylan e maestro d’arte. Ospite d’onore è Bruce Sudano, che canta “The times they are a-changin’“, “Like a rolling stone“, e, al momento del bis, “License to kill“.

Per 70 minuti di esibizione, in un angolo del palco, dipinge su tela Carlo Montana, che alla fine svela al pubblico un ritratto visionario di Bob Dylan con cappello e pennacchio. Ecco, il Dylan di Milton Glaser, il poeta e profeta di una generazione.

Ezio Guaitamacchi nel ruolo di imbonitore durante “Un uomo chiamato Bob Dylan” (fotografia per gentile concessione di Ezio Guaitamacchi)

L’intervista a Ezio Guaitamacchi

Ezio Guaitamacchi è giornalista e critico musicale, oltre che scrittore e strumentista, autore di molti libri sulla storia dell’arte sonora e soprattutto grande appassionato di Bob Dylan, come ammette lui stesso.

Ezio, partiamo a tamburo battente parlando del vostro progetto. Perché nasce Un uomo chiamato Bob Dylan?

Bob Dylan è uno dei tanti soggetti che ho portato in scena. Faccio spettacoli del genere da una ventina d’anni. Erano nati per rendere le presentazioni dei libri un po’ più divertenti di una semplice chiacchierata con un relatore. Di “Un uomo chiamato Bob Dylan” abbiamo fatto una ventina di date in queste due stagioni, ma quella di domenica è forse la penultima, un’altra sarà a Fidenza al Teatro Magnani il prossimo sabato. E poi saremo pronti per una nuova avventura, con lo stesso cast ma un tema diverso, per il 2025.

Tu nutri un amore per Bob Dylan e non lo nascondi. Com’è nata questa consapevolezza?

La mia passione per la musica è nata suonando la chitarra da ragazzino. La passione per Bob Dylan mi è venuta più tardi, non era uno dei miei idoli: il mio più grande era Jimi Hendrix. Lui era il mio guitar hero. Dylan era più sofisticato, non così clamoroso come chitarrista.

Anni dopo, la passione è diventata una professione. Mi tolgo la magliettina da fan e divento il giornalista musicale. Anche se si può non essere fan di Bob Dylan, non si può non esserne ammiratori. Di colui che, al momento, è l’unico premio Nobel per la Letteratura. Una volta l’avevano soprannominato “la voce di una generazione”. Fu il primo a comunicare in maniera diretta con i suoi coetanei, e scrisse canzoni che, purtroppo, ancora oggi suonano di attualità, pensiamo a “Masters of War”. Nel 1965 da “Profeta” del folk diventò, come dico nello spettacolo, il “Picasso del rock”, cambiando stile nel corso degli anni, pur mantenendo una certa identità.

Se dovessi descrivere Bob Dylan in una parola, quale sarebbe?

“Mistero”. Bob Dylan è un mistero. Sono misteriosi i significati delle sue canzoni, quasi incomprensibili a volte, persino ai madrelingua. Il suo periodo di denuncia dell’America del tempo è durato poco. Dopo due o tre anni, è stato sostituito da canzoni che comunicavano comunque lo stato d’animo delle persone, ma che potevano essere interpretate in tanti modi. Questo alone di mistero, anche sul personaggio, è aumentato nel tempo e paradossalmente ne ha incrementato il mito.  

Noi siamo anche una radio di cinema. La vita, soprattutto musicale, di Bob Dylan è stata indagata in film e documentari. Secondo te, come viene trattato Bob Dylan dal cinema? C’è una pellicola che ti ha entusiasmato più di altre?

Dai documentari Bob Dylan è stato trattato benissimo, a partire dal primo del 1965 (“Don’t look back”, ndr), firmato da Donn Alan Pennebaker, che fu precursore della “documentaristica rock”. Poi i due di Martin Scorsese: “No direction home” e l’altro, più recente, sul tour leggendario “The rolling thunder revue”, che culminò nella canzone “Hurricane”, una, soprattutto in Italia, tra le più conosciute di Bob Dylan.

Dal punto di vista cinematografico, segnalo il film “I’m not there”. Mostra cinque o sei personalità di Dylan interpretate da attori diversi, uno dei quali è Cate Blanchett, che è, a mio parere, la più somigliante di tutti. Molto strano e misterioso. Certo è che è un’impresa difficile raccontare il “mistero Bob Dylan”. “I’m not there” mi era piaciuto perché nella sua stranezza non aveva un filo conduttore vero, era un pastiche di personalità, che però coglieva, almeno in parte, quel lato misterioso di Dylan.

Su Netflix è stato pubblicato il documentario making-of di “We are the world”, dove si vede un Dylan timido, intimidito forse. Questo rivela un altro dei volti del cantante. Come lo interpreti?

Tu hai detto intimidito, io suggerirei impacciato. O meglio, non a proprio agio. Bob Dylan non è per niente timido. Quelle del making-of sono immagini “rubate”. E in uno studio di registrazione, con moltissime star, Dylan non si sentiva a proprio agio. Poi, chissà, magari non gli piaceva la canzone!

Con un messaggio significativo e un cast stellare, è comunque un brano passato alla storia. Sono trascorsi 40 anni da allora e se ne parla ancora. L’anno prossimo si celebreranno anche i concerti del Live Aid, dove Dylan suonò malissimo. Suonò accompagnato da Keith Richards e Ronnie Wood, i suoi amici degli Stones, con un’acustica pessima. Il Live Aid fu penalizzante per le grandi leggende degli anni Sessanta, mentre lanciò gli U2, Madonna, i Dire Straits. Dylan non ne uscì benissimo, almeno musicalmente.  

Arriviamo infine a parlare del film con Timothée Chalamet nei panni di Dylan…

Non so come sarà quello che arriva (“A complete unknown” per la regia di James Mangold, ndr), ma ho apprezzato il fatto che dovrebbe riguardare solo una parte della carriera di Dylan, quella che a tutti gli effetti è passata alla storia, quella degli anni ’60.

A complete unknown” è la battuta del ritornello di “Like a rolling stone”. Ma “a complete unknown” è anche vicino al discorso che facevo prima: Bob Dylan resta sconosciuto ai più. Un uomo dal talento molteplice, una figura che verrà ricordata dai posteri come eccellenza della razza umana. Bob Dylan fa parte di una categoria di “eletti”. Ne fa parte adesso, da vivo, e ne farà parte quando, come qualcuno dice, entrerà nell’”altra dimensione”.

Un frame del biopic “A complete unknown”, da Rolling Stone

Immagine in evidenza: Il Giornale dell’Arte

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