Il 5 agosto è morto Charlie Moss, dopo una lunga e brillante carriera da pubblicitario. L’inventore del celebre slogan “I Love NY” col cuoricino rosso fu capace di restituire un nuovo volto all’angosciata New York del 1970.
Una città nella propria stanziale rovina
Verso la fine degli anni ’70 New York è la “Grande Mela marcia“, una metropoli gravata dalla crisi finanziaria e da una realtà tutto fuorché dimora di certezze. Uno spettro spaventa la città dell’arte, della politica e dello spazio, città mai dormiente e fiera, che frana su sé stessa come un castello di mattoncini calciato da un bimbo. “Welcome to Fear City” recitano i pamphlet ceduti ai visitatori al momento del loro ingresso nella città del terrore. Di questi pamphlet, ne viene stampato circa un milione, forse di più, a causa delle ristampe: ne nasce un vero e proprio marketing. Purtroppo, però, questo non basta a nascondere le violente brutture che infestano le vie di Harlem, di Manhattan e di tanti altri borough disastrati. Entro l’anno 1975, le casse di New York sono completamente svuotate, così anche le vite dei suoi cittadini.
Dove tutto è iniziato
Per capire meglio il discorso avviato sulla Big Apple del 1975, facciamo un passo indietro.
Sono gli anni ’50, quelli dei “Mad Men” di Madison Avenue. La Volkswagen produce un nuovo modello che pare proprio uno scarafaggio da quanto è piccolo: lo chiama Beetle. “Ma non si riesce a guidare! Ci hanno presi per stupidi? Chi la vuole questa propaganda tedesca, me ne torno alla mia fidata Ford, va’…“. Sì, ma “think small”. Pensate in piccolo. William Bernbach siede disteso sulla propria poltrona nello studio creativo della DDB, l’agenzia sua, di Doyle e di Dane. Pronuncia quella frase quasi fosse un monito, esorta tutti gli altri a seguirne l’esempio. Essa dunque diviene in quell’anno, nel 1959, lo slogan pubblicitario più famoso avviato dalla Doyle Dane Bernbach, se non uno tra i più originali del decennio.
Fine anni Cinquanta. Si presenta alle porte dell’agenzia un giovanotto, il fattorino, un certo Charles Moskowitz, per recapitare la corrispondenza ai creativi, sempre chini sul loro lavoro. Charles sa bene chi è Bill Bernbach, l’ha sentito parlare in un’intervista, in televisione, e ora lo sta fissando da dentro il suo ufficio. Bernbach lo indica col dito e lo invita a fare un passo avanti, a varcare così la soglia di quel che Charles considera quasi il tempio di un saggio.
Il giorno dopo, Charles Moskowitz – ovvero Moss, per cancellare le proprie origini ebree dal nome – entra alla DDB e, stavolta senza consegnare posta alcuna, si dirige verso la scrivania che gli è stata preparata. Ora che è apprendista ufficiale, Charles sa che dovrà mettersi a lavorare sodo. C’è poco da fare, essere un mad man non è cosa semplice. È convinto però che essendo stato Bill Bernbach a ispirarlo, il grande pubblicitario del Bronx, la propria carriera appare davvero come un dono del destino.
Io amo New York, e New York ama me
Corre l’anno 1977, e New York è diventata, come anticipato, culla della criminalità, della corruzione e del razzismo senza leggi né divieti. Charlie Moss – da tutti viene chiamato “Charlie” – lavora sotto l’egida di Mary Wells Lawrence, presso la Wells Rich Greene. Nel ’77 Moss ha 39 anni, non è più il ragazzetto contento di aver avverato il sogno di una vita. Ha la testa sulle spalle, una moglie e una carriera a cui dedicarsi anima e corpo. Ma non c’è verso di far funzionare New York, la quale, purtroppo, sta lentamente scomparendo dietro un velo di disagio e povertà.
“I love New York”, ma New York non mi ama, sembra dire la gente che si raccoglie sui marciapiedi sudici, in mezzo allo sporco e alla violenza. È un racconto drammatico, una città infelice capace però di riscattarsi: “I love New York“, e anche New York ama me, ribatte Charlie Moss. “Amo NY” diventa l’incipit di una poesia d’amore. Così, Moss agguanta la penna e lo riscrive dappertutto: a cominciare dalle tazze, passa poi alle magliette, ai berretti, ai gadget turistici. La Grande Mela è impiastricciata di scritte, che inneggiano alla passione per una città che ha perduto (e ritrovato) sé stessa.
Capolinea…?
La storia di come Charlie Moss diventò pubblicitario da giovane è più complessa di come l’ho raccontata. Quel che è certo è che l’orma creativa di Moss riuscì ad aprire una feritoia di luce nell’oscuro presente di allora, provocando l’ondata turistica che rese il suo slogan famoso in tutto il mondo. La morte di Charlie Moss, dunque, si presta a noi come occasione di analisi della New York degli anni Settanta. “I Love NY” è il nuovo “Think small“, il motto di una città che si reinventa, come meglio può.
Dopo la crisi del ’70 ce ne saranno altre. Sebbene l’immagine della “grande città” che rivive per conto di un’unica frase stampata sembri tanto poetica, essa risulta anche abbastanza inverosimile. L’eccedente entusiasmo riservato alla brillante trovata di Moss, a cui fece ulteriore eco la sua rivisitazione grafica a opera di Milton Glaser – morto anch’egli più che recentemente – provocò all’epoca un vasto fenomeno sociale, che ancora oggi, ad ogni modo, sopravvive in buona parte.
Immagine in evidenza: Gagarin Magazine