Anatomia di un genere

Se l’arte è uno specchio che riflette o reagisce alla realtà in cui opera, il cinema di genere è una lente di ingrandimento sapientemente incrinata.

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Fratture speculari

Curioso meravigliarsi della scarsa cultura collettiva in materia di cinema nel nostro Paese, dove perfino intendersi sui principi costituzionali è, a volte, chiedere troppo. Spesso e volentieri, si faticano a comprendere fino in fondo le basi dello stato di diritto liberal-democratico. Un esempio intramontabile è la divisione dei poteri pensata da Montesquieu, talvolta chiamata in causa a sostenere la tesi per cui la magistratura non dovrebbe interferire con la politica. In realtà, tale autonomia servirebbe proprio a lasciare libero il potere giudiziario di indagare e giudicare anche su esponenti politici senza temere nulla, visto che la legge sta sopra a chi la partorisce e a chi la esercita con il potere esecutivo. Ebbene, mentre in Francia impartiscono lezioni di cultura cinematografica fin dalle scuole dell’obbligo, sulla scia di un’identità nazionale consolidata a partire dalla Rivoluzione francese, in Italia non abbiamo un solo tassello di storia che ci veda uniti. Affinché l’autore di questo articolo non dia l’impressione di essere troppo colluso con la Costituzione, di seguito è riportato un frammento saggistico relativo al rapporto fra cinema e potere.

Per essere raccontato, il potere (ogni potere) deve avere un mito fondativo condiviso anche da chi il potere non lo esercita. La nostra leggenda originaria si fonda sul fratricidio (Romolo e Remo) invece che sul parricidio. Siamo figli, cioè, di un conflitto fra pari. Non a caso siamo uno tra i pochi Paesi al mondo che non hanno mai fatto una rivoluzione. E anche quando ci abbiamo provato (la Resistenza?), nemmeno i vincitori hanno mai condiviso lo stesso racconto.

Da “L’immaginario del potere nel cinema italiano“, Gianni Canova

Genus, generis

Genere è un sostantivo che proviene dal latino “genus, -neris”. Ha la stessa radice del termine greco “ghénos” (stirpe) e di “ghígnomai” (generare). Il termine, quindi, porta già in seno alla lingua un’idea di identità legata all’origine. L’espressione “cinema di genere” è stata spesso contrapposta a quella di “cinema d’autore”, rivolto a un pubblico più colto. Il nostro è un caso in cui, invece, l’ibridismo fra le due categorie sortirebbe dei risultati particolarmente interessanti. Il Noir in Festival, di cui la IULM è ogni anno un punto strategico, attribuisce al genere una caratteristica ben precisa: quella di essere un pretesto per raccontare le ombre più sotterranee e meno lineari dell’agire umano. E il noir è il più insospettabile dei pretesti. Come direbbe Hitchcock, la tensione è un processo emozionale, il mistero un processo intellettuale.


Cinema democratico

Questa profonda ferita identitaria, almeno secondo chi scrive, non può che accodarsi ai fattori che hanno impedito la maturazione di un certo cinema di genere, abbandonato dopo Dario Argento e Mario Bava (horror/noir) e in parte mai cominciato (fantascienza), con l’eccezione del poliziesco televisivo. Probabilmente perché il genere in questione richiede un’autoriflessione critica, distaccata e sferzante. Non c’è l’autoassoluzione della commedia all’italiana, dove lo spettatore scaricava il suo disagio su maschere da irridere fuori da sé. Il buon cinema di paura costringe lo spettatore a processarsi. Persino il cosiddetto “realismo allegorico” di registi italiani contemporanei come Alice Rohrwacher, per quanto raffinato e non privo di fascino, non avrà mai la portata attrattiva del genere. In una puntata di AuditorIULM, il critico Francesco Alò ha definito questa mancanza “un problema geopolitico”.

Cinema demografico

Ragioni ideologiche e produttive a parte, è proprio in questo bacino di contraddizioni storico-nazionali che il noir e la fantascienza potrebbero trovare ottimi spunti, utili a codificare un personale cinema del folklore. Si pensi ai grandi misteri irrisolti del Novecento italiano, che si ripercuotono in silenzio sulle nostre vite: la trattativa stato-mafia, le stragi, la disaffezione per le istituzioni, le discriminazioni nord-sud, il parassitismo delle organizzazioni criminali. Il passaggio traumatico da un’Italia paleo-agricola a consumistica, che Pasolini affresca magistralmente nei suoi “Scritti corsari”.

Riesumare il perturbante

Il punto è azzardare nuove associazioni, partendo dal folklore della nostra penisola, che in alcune regioni è un teatro noir per morfologia. Il noir osserva la realtà di traverso e, deformandola, ci sbatte in faccia livelli striscianti di realtà non meno reali. Basti pensare ai grandi inganni di “Shining” e “Eyes wide shut” di Kubrick. Si guardi allora a “The witch” di Eggers, a “Memorie di un assassino” di Joon Ho, o al più recente “Anatomia di una caduta” di Triet, per non scomodare i mostri sacri. Il fenomeno Cortellesi, seppur commovente, non durerà a lungo. Per il cinema italiano ci sarà veramente domani, anche in termini di incassi, se inizieremo a scommettere davvero sul genere che finora abbiamo (erroneamente) sentito alieno. Timidi passi in avanti sono stati fatti recentemente con “Favolacce“(2020),“Piove”(2022) e “L’ultima notte di Amore”(2023). Proprio perché non siamo Kubrick, meglio iniziare a impratichirci. Il salto nel vuoto vale la candela.

Immagine in evidenza: Wikipedia

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