“Come stai?”
Questa domanda è diventata un formalismo, a volte non si aspetta nemmeno una risposta. Oggi, però, è impensabile dare per scontato che chi abbiamo di fronte stia bene. Per rispettare la storia e la singolarità del prossimo occorre mettersi in discussione e accettare il rischio di avere a che fare con la fragilità. Il rapporto di amicizia con Francesca (educatrice), Marta e Alessandra (studentesse) è stato il perno per riflettere sul come stare in relazione.
Collaborare nelle difficoltà
Si dice che la crisi dovrebbe unire le persone. Effettivamente, durante la pandemia si è verificato un momento di forte solidarietà, con una percezione diffusa di necessità di un cambiamento. Tuttavia, basta poco tempo per dimenticare. Perciò è importante ricordare quelle realtà che stanno rendendo le difficoltà del momento la materia prima per una svolta.
Le persone sono messe alla prova dalla situazione sia a livello psicologico sia a livello materiale. Il servizio di sostenibilità sociale offerto da Caritas si è rivelato indispensabile. Chiamati a un impegno che li ha messi in prima linea, gli stessi gruppi Caritas hanno scoperto nuove risorse. A marzo mancavano dati e c’era molta disorganizzazione. Questo ha obbligato i volontari che si affidavano solo alle proprie forze ad aprirsi. Riconoscere di non potercela fare da soli e chiedere aiuto ha generato nuove possibilità di collaborazione per fare rete nel servizio caritativo.
Dall’io al tu
In questi mesi è cambiata la percezione del virus. C’è chi è diventato più consapevole, chi ha pensato solo a se stesso, chi all’inizio sembrava aver preso la questione sul serio e poi ha desistito. Non si tratta di un giudizio sulle persone ma di una considerazione sui comportamenti, spesso incostanti e contraddittori rispetto a ciò che accade e che viene detto.
Assimilando i fatti e le emozioni senza dare loro un senso, tutto si inacidisce e non c’è fioritura. Se invece si attribuisce un nome a ciò che accade, allora cambia qualcosa. Questo passaggio qualitativo può modificare l’affermazione “speriamo che passi presto” in domande: Cosa posso fare io? Come posso rendere fertile ciò che mi è dato? In questo modo si acquisisce uno sguardo diverso.
Sarebbe una menzogna parlare di una trasformazione totale, da nero a bianco. La visione rassegnata può ripresentarsi, soprattutto nei momenti di fatica. Possiamo però esprimere con costanza il desiderio di non guardare all’altro come se fosse un problema da risolvere. È un’attitudine che ognuno può coltivare. L’esperienza della pandemia può portare a un passaggio dall’io al tu. L’altro è come me, povero, con delle risorse limitate che però, a loro tempo, potranno portare frutto.
Accogliere la fragilità
Leggendo alcuni titoli delle testate nazionali spicca il termine “resilienza”, il cui significato viene però stravolto. Si fa riferimento a questo concetto inteso come un sentirsi obbligati a reagire facendo sforzi di volontà interiore. Questo dover superare qualsiasi ostacolo uscendone indenni non è però l’esperienza maturata da questi mesi. Non è sempre detto che si debba uscire dal momento di difficoltà come un supereroe, senza ferite e sempre nella versione migliore di sé a discapito di ciò che accade intorno.
Chi in questo momento riesce a farsi concime è chi abbraccia la fragilità, i momenti di inciampo, quelle ferite che sente di portare su di sé da questi mesi, riconoscendone le risorse. Chi fa dei piccoli passi in questa incertezza quotidiana è colui che riconosce che non va tutto bene e nonostante ciò è in grado di scorgere ciò che può essere valorizzato.
Normalità e discernimento
Una metafora per descrivere l’umanità: un giardino con fiori unici e irripetibili. Le piante hanno esigenze di innaffiatura diverse, alcune resistono bene al freddo e altre hanno bisogno di sole. Se si volesse facilitare il tutto, si potrebbe effettuare un trattamento omogeneo al giardino intero. Il risultato sarebbe la morte di quasi tutte le piante.
Tornare alla normalità è iniziare a guardarci per ciò che siamo, e questo non è facile. È più semplice pensare a se stessi con gli occhi dei media e di chi prende le decisioni per noi, senza chiedersi se sia davvero il bene per ciascuno. L’arte del discernimento riguarda la distinzione tra il bene e il bene per me. È giusto bagnare le piante, ma farlo in maniera indistinta non è il bene per tutte.
Forse guardare alla normalità è chiedere all’altro come sta e aspettarsi una risposta. Ascoltare ciò che dirà implica una fatica. È scomodo prendersi cura delle piante prestando attenzione alle loro singolari esigenze perché significa doversi ricordare delle cose in più.
Siamo in una situazione nuova a cui dobbiamo adattarci. Troppo spesso sprechiamo le energie con lo scopo di tornare a una quotidianità che, in realtà, non era poi così rosea. La normalità va cercata al di là delle convenzioni e dei canoni prestabiliti. Il fatto che si sia sempre fatto qualcosa in una determinata maniera non garantisce qualità e valore.
La normalità può essere rappresentata proprio da questo giardino, così ricco e profumato proprio nella sua essenza. Una complessità da preservare e di cui avere cura.