Il Super Bowl non è solo il cuore pulsante dello sport americano, ma anche uno degli eventi musicali più importanti dell’anno, con il suo Halftime Show che da anni regala performance memorabili. Quest’anno, è stato il turno di Kendrick Lamar, che ha sfruttato quei 13 minuti di visibilità globale per esprimere molto più di una semplice performance musicale. Con una scenografia curata, un’energia unica e la sua consueta vena provocatoria, Lamar ha trasformato l’Halftime Show in una riflessione sulle sue battaglie personali, sulla politica e sull’identità, ma anche in un’arena per sfidare i suoi rivali, con uno sguardo penetrante su Drake.
Un inizio di fuoco
“La rivoluzione sta per essere trasmessa in TV“. Con queste parole dirompenti, Kendrick Lamar ha dato il via alla sua esibizione al Super Bowl. Fin dall’apertura, era evidente che non si sarebbe trattato di una semplice raccolta dei suoi successi. La frase chiave pronunciata da Lamar – “The revolution is about to be televised; You picked the right time but the wrong guy” – trasforma il Super Bowl, massima vetrina mediatica globale, in una piattaforma per un messaggio sovversivo.
Ma nelle sue parole si cela anche un avvertimento: se il contesto può essere quello giusto, la vera rivoluzione non può essere contenuta in un evento mediatico. Il riferimento al “wrong guy” sembra puntare verso Donald Trump, una figura che ha esacerbato le divisioni nel Paese con il suo ritorno sulla scena politica.
In questa performance, Lamar si erge a voce del dissenso, pienamente consapevole di far parte del sistema che intende sfidare. Mentre il Super Bowl tenta di assimilare ogni forma di protesta trasformandola in spettacolo, Lamar sfrutta proprio questo palcoscenico per metterne in luce le contraddizioni.
Il rimando alla celebre poesia di Gil Scott-Heron, The Revolution Will Not Be Televised (1971), è esplicito. Quest’opera sostiene che il vero cambiamento non nasca dalle istituzioni o dai media, ma dall’azione diretta delle persone, criticando l’idea di una rivoluzione come spettacolo e denunciando come i media mascherino la realtà della violenza razziale.
La frase assume ulteriori sfumature considerando che, secondo diverse interpretazioni sui social, il “wrong guy” citato da Lamar potrebbe riferirsi direttamente a Donald Trump, presente tra gli spettatori del Super Bowl.
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La faida con Drake: un dissing senza mezze misure
Un momento che ha catalizzato l’attenzione di tutti è stato il tanto atteso Not Like Us, una traccia che si diceva potesse essere la punta di diamante della performance, specialmente considerando la controversia legale tra Lamar e Drake. La domanda che rimbalzava da giorni era: Kendrick avrebbe avuto il coraggio di portare Not Like Us sul palco del Super Bowl davanti a 120 milioni di spettatori? La risposta è stata sì.
L’attesa per l’esibizione di Lamar era palpabile. La canzone che avrebbe portato sul palco, Not Like Us, è diventata negli ultimi mesi il fulcro della sua contesa con Drake, un brano che ha sollevato polemiche, vinto premi e ribaltato le gerarchie nel mondo dell’hip-hop. La sua esibizione sembrava destinata a celebrare quella rivincita musicale.
I want to play their favourite song but you know they like to sue
Kendrick Lamar
Questa la battuta da lui pronunciata, quando dopo aver fatto finta di iniziare a cantarla, finalmente la traccia è partita e l’arena ha vibrato al ritmo del beat, in un’esibizione senza compromessi.
Quello che resterà impressa nella memoria, però, non è solo la potenza della canzone, ma il sorriso malizioso di Lamar mentre rappava il diss. Il suo sorriso, quasi da cartoon, tradiva il piacere di una rivincita tanto attesa e costruita. Non c’era nessuna dissimulazione nel suo viso: si divertiva a spazzare via il suo nemico, con l’intensità che solo un vero protagonista della scena hip-hop sa regalare.
Quando Lamar ha rappato la famosa riga “Say, Drake, I hear you like ‘em young”, la sua gestualità ha enfatizzato ogni parola, trasformando il palco in un’arena.
La parte più controversa del brano, quella che fa riferimento alle accuse di pedofilia, è stata sfumata con un’astuzia teatrale, sostituendo la parola “pedofilo” con un urlo preregistrato e allontanando la telecamera proprio nel momento più carico di tensione.
Questa esibizione, tuttavia, non si limitava alla vendetta personale, ma era anche un gioco metanarrativo. Lamar non ha evitato le riflessioni sul ruolo dell’artista nero nel panorama musicale e sul significato di esibirsi in un contesto come quello del Super Bowl, un evento che negli ultimi anni è stato al centro di dibattiti politici, in particolare dopo le proteste di Colin Kaepernick, uno dei volti simbolo della protesta “I can’t breathe”.
In un momento del set, l’attore Samuel L. Jackson, vestito da Zio Sam, ha ricordato a Lamar (e al pubblico) che “questo è ciò che vuole l’America: calma, tranquillità”. Un messaggio che Lamar ha subito smentito, riprendendo con il suo diss, un invito a non cedere a un conformismo rassicurante.
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Un’esibizione che va oltre la musica
L’esibizione si è rivelata tanto un omaggio alla sua evoluzione artistica quanto un’affermazione di potere. La scelta di concentrarsi su brani del suo ultimo album GNX, come Man at the Garden e Peekaboo, invece che su successi più popolari come Alright o Bitch, Don’t Kill My Vibe, ha dimostrato la volontà di Lamar di non piegarsi a facili concessioni, ma di presentarsi come un artista in continua evoluzione.
Anche l’apparizione di SZA, per eseguire i loro duetti Luther e All the Stars, ha avuto un taglio volutamente sobrio e non ideologico.
Il Super Bowl, con il suo potere di comunicazione globale, è stato lo sfondo perfetto per Lamar per affrontare una serie di questioni più ampie, pur mantenendo il focus sulla sua lotta personale con Drake. Alla fine, la sua esibizione non è stata solo un momento di spettacolo, ma una rivendicazione di come l’hip-hop può riscrivere le regole, spingendo oltre i limiti imposti dalla cultura popolare.
Potente è il concetto comunicativo della frase: “la rivoluzione non verrà trasmessa in televisione”.
Un’idea che si è fatta immagine in un episodio, tra i tanti intrecciati nello spettacolo, che ha incarnato perfettamente questa idea: quando un individuo ha sollevato una bandiera con le scritte Sudan e Gaza, il suo gesto è stato immediatamente spento, ma non prima di aver riecheggiato con forza nel contesto già carico di significati.
Un’altra forma di protesta, un altro frammento di dissenso, intrecciato alla narrazione più ampia di resistenza e rivendicazione che l’artista ha voluto evocare.
Un fuori onda rilancia il messaggio di Kendrick
Almeno una persona ha interpretato l’intervallo come un’opportunità per trasformare lo spazio scenico in un atto politico: ha srotolato uno striscione che univa le bandiere della Palestina e del Sudan, raffigurando un cuore e un pugno, simboli di solidarietà e lotta. Era un’estensione del messaggio dello spettacolo? Un livello ulteriore di significato, nascosto dentro un già complesso gioco di rimandi e suggestioni?
Un filmato, ripreso dall’interno dello stadio ma mai mandato in onda, racconta il seguito: l’individuo è stato rapidamente allontanato dal palco principale, ha corso per qualche istante sul campo prima di essere fermato e portato via da un gruppo di guardie in giacca e cravatta.
Quella rivoluzione, almeno per quella sera, è rimasta fuori dalle telecamere. Ma la sua eco, risuona ancora.
Kendrick ha poi aggiunto un ulteriore strato di complessità con l’apparizione di Serena Williams, che ha ballato sulle note di Not Like Us, aggiungendo una dimensione personale e speculativa. La scelta di includerla nel suo show, sebbene non annunciata, ha scatenato discussioni, poiché la Williams aveva avuto una relazione con Drake in passato, alimentando e aggiungendo maggior pepe al dibattito sui possibili riferimenti al rapper canadese.
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Una scenografia ricca di simbolismi
Nonostante il chiacchierato dissing, la performance di Kendrick Lamar al Super Bowl non è stata solo una questione di faida tra rapper. Piuttosto, ha rappresentato una critica al sistema americano e una riflessione sulle sue battaglie politiche, come quelle contro la brutalità della polizia e il razzismo sistemico. L’assenza di Alright, il brano che lo aveva consacrato come voce di protesta durante i movimenti sociali, ha fatto storcere qualche naso, ma la sua scelta di scenografia ha dato vita a un messaggio sottile. Il cofano di un’auto e un lampione, entrambi reminiscenze del video di Alright, sono diventati simboli di un contrasto silenzioso tra resistenza e sistema.
Il Super Bowl non è solo un evento sportivo, ma una vetrina culturale, uno specchio della società americana. La sua scenografia, densa di simbolismo, costruisce un paesaggio visivo che trasmette un messaggio politico potente.
Uno degli elementi più significativi è il gioco del “tris” (tic-tac-toe), ripreso nella scenografia e utilizzato come metafora della società americana contemporanea: un gioco apparentemente semplice, ma strutturalmente limitato nelle sue possibilità: proprio come il sogno americano, che promette infinite opportunità ma impone confini invisibili.
L’arrivo di Samuel L. Jackson in scena
A rafforzare questa critica arriva l’intervento teatrale di Samuel L. Jackson, che appare sul palco in un abito rosso, bianco e blu con un cilindro a stelle e strisce per introdurre Kendrick Lamar. Il suo personaggio richiama l’iconografia dello Uncle Sam, simbolo del patriottismo americano, ma il suo ruolo potrebbe anche avere una sfumatura più ambigua.
Mentre Jackson introduce Kendrick Lamar, il suo atteggiamento e le sue parole sollevano interrogativi. In un momento chiave della performance, l’attore dice al rapper che è “too loud, too reckless, too ghetto” frasi che evocano stereotipi razziali spesso usati per etichettare la cultura hip-hop. Questa caratterizzazione potrebbe suggerire una riflessione su come il sistema percepisce e controlla l’espressione artistica nera.
Alcuni potrebbero interpretare questa figura come una possibile allusione a Zio Tom, termine che affonda le sue radici nel romanzo La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe (1852) ed è diventato sinonimo di sottomissione al potere bianco. Jackson, d’altronde, aveva già incarnato un personaggio simile in Django Unchained (2012), un ruolo in cui il suo personaggio era complice del sistema oppressivo.
Ma Lamar non si lascia intimidire. Anziché reagire immediatamente, rallenta per un attimo, come se stesse accettando momentaneamente le regole del gioco. Tuttavia, è solo una mossa strategica: subito dopo, accelera il ritmo, ribadendo il suo messaggio di ribellione. È una dichiarazione di autonomia, un netto rifiuto del controllo artistico e sociale, un “f*ck you” all’idea che un artista debba conformarsi alle aspettative imposte dall’alto.
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L’America del General Order No. 15
Un altro momento chiave arriva con la frase “40 acres and a mule this is bigger than the music”, pronunciata prima dell’esibizione di Not Like Us: un chiaro riferimento alla promessa fatta ai neri americani alla fine della Guerra Civile. Il General Order No. 15, emanato dal generale William T. Sherman nel 1865, prevedeva l’assegnazione di 40 acri di terra agli schiavi liberati, una promessa mai mantenuta, oggi simbolo delle riparazioni mai concesse.
Per Lamar, l’arte non può essere confinata alla musica: è una forma di lotta politica e sociale, un grido contro le ingiustizie strutturali della società americana.
Il suo messaggio non è solo espressione artistica, ma un richiamo alla memoria storica e una denuncia delle promesse tradite.
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La bandiera americana divisa: un’America in frammenti
Uno dei momenti più potenti della performance è l’immagine di Kendrick Lamar al centro di una bandiera americana divisa a metà. Mentre i suoi ballerini formano una bandiera vivente, il rapper si erge nel mezzo, rappresentando fisicamente la frattura che attraversa la nazione. È una metafora visiva della discordia sociale, politica e razziale che segna l’America di oggi.
La bandiera spezzata non è solo un’immagine estetica: è una denuncia dell’ipocrisia di un Paese che si autoproclama terra delle opportunità, ma che continua a negarle a intere comunità. Lamar, con la sua esibizione, trasforma il Super Bowl in un atto politico, un manifesto di protesta che, seppur dentro il sistema, ne mina le fondamenta dall’interno.
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Un finale epico: Tv Off
Dopo il fuoco di Not Like Us, Kendrick Lamar ha scelto di chiudere lo show con TV Off, un brano che suona come un inno trionfale e che ha trovato particolare risonanza tra il pubblico di New Orleans, città che ha ospitato il Super Bowl. Con trombe potenti e un ritornello che ha risuonato come una celebrazione, la performance si è chiusa con una visuale dall’alto delle telecamere della regia: “Game Over” scritto in grande, proiettato su una parte dello stadio, con il palco illuminato dalla coreografia, che riprende gli iconici simboli della croce, del cerchio, del triangolo e del quadrato di PlayStation. Un easter egg che lascia intendere una frecciatina definitiva a Drake sulla fine di questo beef, lasciando un impatto emotivo fortissimo.
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Conclusione: il rap come strumento di auto-coscienza
In un mondo sempre più dominato dalla spettacolarizzazione, Kendrick Lamar ha dimostrato che l’arte può ancora servire come strumento di riflessione profonda e di critica sociale. La sua performance al Super Bowl non è stata solo un’occasione di intrattenimento, ma un atto filosofico, un invito a interrogarsi su come viviamo, su cosa guardiamo e, soprattutto, su cosa accettiamo come vero. E in questo, Lamar non è solo un rapper: è un pensatore, un artista che sa usare il palcoscenico del Super Bowl per sfidare il sistema e, allo stesso tempo, per chiedere al suo pubblico di risvegliarsi, di non essere semplicemente spettatori, ma protagonisti di una rivoluzione che va oltre la musica.
Immagine in evidenza: The New York Times