Eleni Molos: attrice, voce narrante di audiolibri, doppiatrice, creatrice di podcast e collaboratrice alla stesura di manuali filosofici. Ha la capacità di reinventarsi in maniera unica in ogni progetto. Oggi ci porta nel suo mondo per scoprire le tante dimensioni che lo compongono.
L’intervista a Eleni Molos
Cosa l’ha spinta ad esplorare più forme diverse?
É proprio un’indole personale, già da piccola c’era questa curiosità verso le varie forme di espressione artistica; questa tendenza al reinventarsi è un aspetto che mi piace molto, però da un lato aumenta le mie insicurezze.
Poi in realtà ho studiato filosofia, che comunque è un ramo del sapere che apre gli interessi, infatti lavorativamente parlando per un periodo pensavo di fare ricerca filosofica e accademica.
Quando mi si è presentata una scelta se rimanere in ambito accademico, e quindi rinunciare al teatro, perché fare seriamente entrambe le cose mi sembrava impossibile, ho cercato di provare a portare quello che ho imparato dalla filosofia nel teatro, e viceversa.
Ha avuto delle guide in questo percorso?
Per me è sempre stato fondamentale avere dei maestri, delle persone con cui instaurare un dialogo profondo crescendo a livello professionale e personale.
Queste persone a loro volta sono state molto poliedriche, come Alberto Bozzi, uno dei miei grandi maestri; anche lui aveva la curiosità di mischiare più linguaggi e trovare un senso che li potesse unire.
É stata anche la vita che mi ha portato ad approfondire certi ambiti piuttosto che altri.
C’è una costante che si porta dietro?
Sì, io parto quasi sempre dalla parola, ho un grande amore per la parola, in tutte le sue forme. Parto sempre tendenzialmente da un testo, cerco di trovare il modo più efficace per donarlo agli altri in quanti più ambiti posso.
Mi rendo conto che spesso il problema è l’apprendere a fondo: diciamo che non ci piace una cosa solo perché magari non riusciamo a capirla bene. Penso che quando le parole vengono poste in un certo modo è difficile non capirle, e quando le capisci, poi è difficile non amarle.
Quali sono i vantaggi dell’essere un’artista in più discipline?
Ripenso ora al periodo del covid: i teatri erano chiusi, io stavo scrivendo per un manuale di filosofia del liceo classico; il periodo del covid è stato un periodo di lavoro molto intenso, e se avessi lavorato solo in teatro sarebbe stato meno facile. Successivamente ho iniziato anche a scrivere dei podcast.
Inoltre delle volte alcune strade artistiche si esaudiscono perché è molto difficile nel mondo dello spettacolo di oggi vivere solo di questo, avere la capacità di reinventarsi sicuramente permette di andare oltre al piccolo ambito.
E invece quali sono i limiti?
Parlando di difficoltà, io trovo di non essere specializzata e quindi di non avere trovato una strada unica. Oltre a ciò essere trasversale significa reinventarsi ogni volta nei progetti che si portano avanti. Infine, questa poliedricità, seppure bella, comporta delle rinunce, e ciò può essere complesso, delle volte è necessario abbandonare qualcosa per dedicarsi totalmente ad una sola.
Come si è avvicinata al settore degli audiolibri?
Gli audiolibri sono arrivati in Italia nel 2016 con Audible e poi Storytel, e Sergio Ferrentino, un regista con cui lavoro, fu uno dei primi interpellati per la produzione di audio serie originali ed iniziare a creare l’argomentario di audiolibri. Era un lavoro quasi pionieristico, e Sergio mi ha subito coinvolta.
E al doppiaggio?
Il doppiaggio, l’ho iniziato in realtà come opportunità lavorativa, essendo più tangibile rispetto alle produzioni teatrali, in cui è più difficile inserirsi. Poi devo dire che mi sono un pochino disamorata del doppiaggio per una serie di contingenze economiche e sociali. Attualmente mi occupo principalmente del doppiaggio di videogiochi. Col tempo è cambiato anche il modo di doppiare.
In realtà ultimamente preferisco guardare i film in lingua originale, e per avere una certa coerenza non mi sembra giusto continuare a lavorare in un ambito in cui ho smesso un po’ di credere.
Da un lato mi dispiace anche per l’attore che ci ha messo del suo nell’uso della voce mentre recitava. Per questi motivi preferisco usare la mia voce in altri programmi, come i radiogrammi, i podcast, o il doppiaggio di videogiochi.
Trova delle differenze tra il recitare solo con la voce rispetto all’uso dell’intero corpo?
Non ho mai sentito una diminuzione rispetto a recitare sul palco con tutto il corpo, per me è semplicemente un altro linguaggio.
Tutto quello che tu fai vedere, devi trasformarlo in qualcosa di sonoro, questo comporta uno sforzo fisico per trovare una via sonora di esprimersi. Si tratta di una ricerca continua.
La recitazione solo microfonica è comunque capace di stimolare l’immaginazione degli ascoltatori, e dirgli “crea qualcosa di tuo, io ti sto dando degli spunti, adesso continua tu”.
Naturalmente nel doppiaggio questo viene meno, poiché ti limiti a tradurre l’immagine visiva data dall’attore. Invece nell’audio dramma sei proprio tu a dare e a creare insieme all’ascoltatore l’immagine visiva.
La cosa affascinante è che tu dai degli stimoli, ma sai benissimo che come lo visualizzi nella tua testa, non sarà mai come ciò si crea nella testa degli ascoltatori; ognuno creerà un’immagine diversa. Questo è il lato liberatorio dell’offrire un testo.