6 Novembre: giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in tempi di guerra e conflitti armati

Si celebra oggi, mercoledì 6 novembre, la ventitreesima giornata internazionale sulla prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in tempi di guerra e di conflitti armati. L’ONU si propone di garantire che la protezione dell’ambiente venga ricompresa nelle più ampie strategie per la prevenzione dei conflitti e il mantenimento della pace.

Perché è importante

Istituita nel 2001 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, questa giornata ha l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione e renderla consapevole delle innumerevoli perdite che le guerre comportano, non soltanto a livello umano o economico.
Si tende spesso a non tenere in considerazione che la maggior parte dei conflitti nasce per il controllo delle risorse naturali: il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha sottolineato infatti che il 40% degli scontri interni negli ultimi 60 anni sia stato una diretta conseguenza della volontà di sfruttare le risorse naturali. Ancor meno si tende a tenere in considerazione l’enorme danno che le strategie militari arrecano a flora e fauna.

Sono sei i dipartimenti e le agenzie attualmente coordinati dall’ONU per l’aiuto all’identificazione e alla prevenzione delle cause delle risorse naturali in situazioni di guerra e alla promozione di azioni concrete di costruzione della pace. Il ruolo fondamentale degli ecosistemi integri e delle risorse naturali gestite in modo sostenibile nel ridurre il rischio di conflitti armati è stato riconosciuto nel 2016 dalla Risoluzione UNEP/EA.2/Res.15.
L’Environmental Law Institute (ELI), il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, assieme alle Università di Tokyo e McGill ha lanciato un programma di ricerca globale per valorizzare le lezioni apprese e le migliori pratiche nella gestione delle risorse naturali durante i processi di costruzione della pace post-conflitto.

Come si traduce tutto ciò a livello pratico?

Una giornata come questa ha, purtroppo, grande valore soprattutto in un periodo come questo, contraddistinto da guerre ormai troppo lunghe. Ma come si fa ad avere una stima dei danni ambientali che da queste scaturiscono?
Partendo dalle basi, sembra quasi scontato ricordare che navi, aerei e tutto ciò che compone l’attrezzatura militare consumano grosse quantità di carburante, comportando dunque una massiccia e consistente emissione di C02 nell’atmosfera.

È attualmente l’esercito statunitense, secondo uno studio del 2019 della Durham University e della Lancaster University, quello maggiormente inquinante della storia, registrando -inoltre- il primato di maggior consumatore istituzionale al mondo di petrolio.

Ma restando sul territorio nostrano, ricordiamo che non è poi così inconsueto ritrovare tutt’oggi residui bellici delle due guerre mondiali, perlopiù esplosivi, che, oltre a inquinare il terreno in cui attualmente si trovano, sono anche il risultato di detonazioni che hanno procurato ingenti quantitativi di polveri e gas, inquinanti per l’aria.

In particolare, il territorio del Kuwait è stato oggetto di un grave disastro naturale conseguente a una guerra. Si tratta dell’ordine che ricevette l’esercito iracheno durante la Prima Guerra del Golfo (1990-1991) di incendiare diverse centinaia di pozzi di petrolio. Quest’atto portò al riversamento di milioni di litri di petrolio nel Golfo Persico, danneggiando non soltanto le coste, ma anche l’entroterra, dove si formarono dei veri e propri laghi di petrolio, estremamente inquinanti. Come risultato di tutto ciò, circa cinquecento milioni di tonnellate di anidride carbonica furono rilasciate nell’atmosfera, e fu necessario l’impegno di un intero anno per riuscire a spegnere completamente gli incendi.
Poco lontano, un’altra area gravemente colpita dai disastri della guerra, è stata l’Iraq, che durante la guerra del 2003, durata otto anni, ha subito l’immissione nei fiumi di milioni di tonnellate di liquami grezzi a causa dei bombardamenti sui sistemi idrici e igienico-sanitari, oltre che la dispersione dei rifiuti industriali conseguente alla distruzione delle fabbriche. Com’è facile dedurre, ciò ha portato all’azzeramento dell’agricoltura e dell’economia di un Paese già abbastanza in difficoltà.
Nel 2019, un rapporto delle Nazioni Unite ha posizionato l’Iraq al quinto posto tra i Paesi più vulnerabili al mondo per quanto riguarda la disponibilità di acqua e cibo e l’esposizione a temperature estreme.

Ucraina e Gaza, a quanto ammonta l’inquinamento bellico?

La situazione che vede coinvolte le guerre ancora in corso non mostra però un quadro migliore.
Il Parlamento dell’Unione Europea stima che, dal 2022, l’Ucraina abbia causato danni ambientali per 52,4 miliardi di euro, essendo il suo territorio costituito da oltre 6mila aree naturali protette, su cui cresce il 35% della biodiversità continentale europea. Sono circa 2.317 le segnalazioni verificate dall’UE di azioni militari con un effetto ambientale diretto sulla natura. Oltre agli incendi, alle esplosioni, alla costruzione di fortificazioni e all’avvelenamento del suolo e dell’acqua, molti terreni sono ormai inutilizzabili a causa della presenza di ordigni inesplosi o per la presenza di sostanze tossiche, come il fosforo bianco.
Il Ministro dell’ecologia ucraino ha dichiarato che le emissioni prodotte in due anni di invasione ammontano a circa 175 milioni di tonnellate di anidride carbonica: si tratta del risultato dei bombardamenti sui depositi di combustibili fossili e sui gasdotti Nord Stream (che hanno portato a un’eruzione sottomarina di metano), dei grandi incendi che hanno colpito quindici impianti di stoccaggio di petrolio, degli otre duecenti attacchi alle reti del gas.

La caccia ai terroristi di Hamas è diventata sterminio di una terra e di un popolo.
Come scrive una ricercatrice legale di Greenpeace, si tratta di un “genocidio in atto che ha conseguenze disastrose anche per gli ecosistemi e viola il diritto di molte persone di godere e vivere in un ambiente sano”.
I danni naturali di questo conflitto sono, indubbiamente, tra i peggiori degli ultimi tempi. Soltanto nei primi due mesi di guerra, si è arrivati a quasi 500mila tonnellate di anidride carbonica rilasciate dai bombardamenti aerei e dall’invasione via terra. Solo nelle prime otto settimane, nella striscia di Gaza è stato rilasciato dell’equivalente dell’impronta carbonica annuale di oltre venti fra le nazioni più vulnerabili del mondo.
Ad oggi, il 90% delle acque sotterranee della zona non sono potabili, l’aria è resa contaminata dalle sostanze esplosive, che inquinano anche i terreni agricoli, il 70% della flotta peschereccia è stata distrutta dal governo di Netanyahu: la guerra ha reso quest’area inabitabile non soltanto in tempo di conflitto, ma anche per le generazioni a venire. La ricostruzione di Gaza da sola produrrà circa 60 milioni di tonnellate di CO2, ossia una cifra maggiore delle emissioni annuali di oltre 135 Paesi.

Sempre peggio

Le emissioni militari sono attualmente ai massimi storici: nel 2022 i rilasci globali di CO2 erano 182 volte superiori a quelle del 1850.
È bene dunque avere piena consapevolezza di che cosa rappresenti davvero la giornata del 6 di novembre. Si tratta di una promessa, di un impegno, di un dovere, di una necessità a cui l’umanità deve attenersi. Si tratta del tentativo di abbassare i costi, già assai alti e inaccettabili, delle guerre, preservando l’unica cosa per cui valga davvero la pena lottare: la Terra.

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