Elio Germano: “Un’eredità per i giovani? Il modo in cui Berlinguer ascoltava”

Fresco del premio come miglior attore alla Festa del cinema di Roma, Elio Germano arriva a Milano per presentare insieme al regista Andrea Segre il film “Berlinguer – La grande ambizione”, nelle sale a partire da giovedì 31 ottobre 2024. La proiezione in anteprima si è svolta oggi al cinema Anteo e l’incontro con l’attore e il regista è stato condotto dal critico cinematografico Paolo Mereghetti. Radio IULM era presente e ha rivolto una domanda a Germano.

Enrico Berlinguer, mai raccontato dal cinema di finzione

Molti i documentari su di lui, poche le comparse in film di finzione, come in “Esterno Notte” di Marco Bellocchio, nessuna traccia di film in cui il volto di Berlinguer riprendesse vita al centro della narrazione, almeno fino all’uscita del lungometraggio diretto da Andrea Segre: “Berlinguer – La grande ambizione”. Chi è stato questo segretario del Partito Comunista Italiano? Come si muoveva fra gli spazi politici e quelli privati? Qual è questa grande ambizione (o rimpianto) che ha incarnato? Siamo nell’Italia degli anni ’73-’78, quegli anni in cui il partito di Berlinguer raggiunse 12 milioni di elettori e rischiò di sorpassare la Democrazia Cristiana, il cosiddetto “partito dell’immobilismo”, quello di Fanfani, di Andreotti, di Moro. Siamo in un periodo della tensione geopolitica che precede la seconda guerra fredda degli anni ’80.

Il mondo è attraversato da manifestazioni di insofferenza, attentati e spargimenti di sangue. In quadro complessivo che divide nettamente i paesi dell’occidente liberale e capitalista dal blocco orientale allineato all’Unione Sovietica, l’Italia, membro fedele della NATO, non soffoca troppo le istanze del partito comunista italiano. Berlinguer si fa carico dei bisogni della classe proletaria e li rappresenta, ma si distanzia dalle direttive perentorie e inflessibili di Mosca per abbracciare una postura più moderata e collaborativa con le altre forze politiche: il famoso “compromesso storico”. Aldo Moro, voce isolata dal resto della DC, verrà rapito e ucciso dalle brigate rosse nel ’78, proprio dopo aver preso l’impegno di agevolare l’entrata del PCI nella maggioranza di governo.

Fotogramma dal film, Festa dell’Unità nel 1975, da Wired Italia

L’approccio filologico del film

Dopo la proiezione, il regista ha dichiarato che l’intenzione era quella di inseguire un’oggettività che non si sbilanciasse da una parte o dall’altra della storia, ma che raccontasse un’ambizione che il cinema non aveva ancora raccontato, quella che animava le persone di cui Berlinguer si circondava e di cui si faceva interprete. Numerosi sono infatti gli inserti video dell’epoca, ben incastonati nell’economia del montaggio, anche grazie a un intenso lavoro di color correction.

Dall’altra parte, il fatto che non fosse un documentario permetteva di ricostruire, sulla base di concrete testimonianze, gli spazi bianchi della sua parabola, come gli incontri a porte chiuse con Andreotti, Moro o Breznev, ma anche i frangenti di discussione familiare, come quando Enrico Berlinguer dice a moglie e figli di non trattare con i rapitori nel caso anche lui facesse la fine di Moro. In questa prospettiva, svetta un Elio Germano che non si mette al servizio del personaggio, ma al servizio della causa per la quale il personaggio lotta. Senza scivolare nell’imitazione o l’iperbole, Germano si infila sotto le movenze, il modo di parlare e il senso di inadeguatezza di Berlinguer. E lo fa in maniera piuttosto fine e controllata.

Elio Germano nei panni di Enrico Berlinguer, da IMDb

La nostra domanda a Elio Germano

“Ieri hai dedicato il premio che hai vinto come miglior attore alle nuove generazioni; quale credi sia il tratto di Berlinguer che ti auguri possano raccogliere le classi dirigenti del futuro?

“Innanzitutto il fatto che non fosse un leader. Lui ci avrebbe tenuto molto a raccontare la fatica a ricoprire quel ruolo, cosa che è un grosso segno di umanità, sensibilità e rispetto nei confronti del prossimo e del compito che aveva. Oggi siamo abituati al fatto che un ruolo apicale di potere consenta di fare il porco comodo proprio. In molti, non so se in tutti, c’era proprio la questione dell’unità: il fatto di uscire da quei comitati con una linea comune impegnava tutte le persone a posizionarsi esattamente all’opposto del discorso leaderistico che vuole imporre una visione agli altri. C’era invece un’allenamento alla fatica dell’ascolto per il raggiungimento della linea comune. Addirittura nel partito comunista a occuparsi di redigere il comunicato sulla decisione collegiale presa era proprio la parte che non era d’accordo.

Questo per far capire l’allenamento al rispetto dell’opinione altrui. Non si trattava di un’occasione di scontro, ma di un tentativo di dare un contributo a qualcosa che si sentiva più grande, dove quindi ognuno si stupiva anche della relatività del proprio punto di vista. Secondo me l’eredità è proprio questa: la volontà di risolvere le questioni in termini collettivi e per la collettività. Oggi ci fanno crescere in modi che, peraltro, ci rendono fortemente infelici. Questa attività, la politica, è in realtà un motore di benessere. Fare le cose per una funzione collettiva ti fa stare bene, ti dà proprio un senso nella vita”.

Andrea Segre ed Elio Germano al cinema Anteo per l’anteprima

Immagine in evidenza: Vanity Fair

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