In questo silenzio gelido, cammino come sospesa tra il nulla e l’attesa, immersa in un mondo che sembra aver dimenticato il calore. Sono le 7 del mattino e su Milano è calata una nebbia fitta, una coltre bianca che avvolge ogni cosa mentre mi dirigo a scuola, ancora intrappolata tra le braccia del sonno.
Ogni giorno lo stesso rituale: passo dopo passo, il mio corpo si muove a fatica, ancora indolenzito dal peso del risveglio, mentre la mia mente continua a correre inarrestabile, incapace di fermarsi, di trovare pace. È un’ossessione silenziosa, come se i miei pensieri fossero cresciuti anche loro nella frenesia instancabile di questa città.
Il mio respiro si perde nella foschia invernale, un sussurro soffocato, un eco lontano di sogni ormai sbiaditi, così evanescenti da sembrare irrecuperabili. Cerco di scuotermi da questa apatia, di rompere l’incantesimo.
Metto le cuffie, alzo il volume della musica e lascio che i suoni riempiano il vuoto attorno a me. Canticchio i ritornelli senza pensare troppo al significato delle parole, ma in qualche modo ne colgo l’essenza. Forse è il ritmo che batte come un cuore, forse è la familiarità di queste canzoni che mi hanno accompagnato così spesso in mattine come questa.
C’è qualcosa di magico nella musica mentre la città dorme ancora. Milano, avvolta nella sua nebbia spettrale, sembra trasformarsi in una scena da film. La luce fioca dei lampioni illumina appena le strade deserte, creando un contrasto surreale tra la quiete e l’incessante movimento dentro di me. E per un istante, mi emoziono. Alzo lo sguardo e vedo i pochi uccelli che si perdono nel cielo grigio, danzando senza fretta, come se la nebbia stessa fosse la loro pista. I primi raggi di sole, ancora deboli, cercano di farsi strada attraverso lo scudo bianco, ma sembrano destinati a dissolversi prima di arrivare a toccare terra, proprio come i miei pensieri, troppo flebili per lasciare un segno.
Le lacrime, anche se non scivolano più sul mio viso, sono lì. Le sento, congelate dentro di me, pesanti come pietre, intrappolate in un ghiaccio che non si scioglie. Ogni passo diventa un atto di fatica, come se persino la gravità fosse diventata più crudele, più opprimente. L’inverno ha avvolto tutto in un abbraccio gelido, zittendo il vento e soffocando il canto degli uccelli. Ha congelato non solo l’aria intorno a me, ma anche ogni cosa dentro di me: i sogni sono diventati statue di ghiaccio, e le ambizioni si sono trasformate in prigioni invisibili, che posso vedere ma non raggiungere.
Eppure, nonostante questa immobilità, la vita continua a chiedermi di andare avanti, di sopravvivere, di esistere.
Ogni fibra del mio essere vorrebbe cedere, arrendersi alla stanchezza che mi consuma, ma c’è una forza, un impulso, che mi spinge a proseguire.
Mi trascino nel grigiore di una città che sembra aver perso i suoi colori, i suoi suoni. Le albe e i tramonti si mescolano in un unico, indistinto sfondo opaco, come se il tempo stesso non avesse più un senso.
Le strade che percorro sono come vene ghiacciate, rigide e fredde, senza una destinazione chiara. Non c’è una meta, solo il movimento, continuo e meccanico, come un automa che non sa più perché si muove. Ogni passo è accompagnato da un pensiero stanco, ripetitivo, che risuona come un mantra vuoto: “Devo continuare”.
Ma anche in questo grigio, qualcosa brilla. Non sono i raggi del sole: loro sono troppo deboli, nascosti dietro un velo di nuvole, troppo lontani per essere visti.
Sotto i miei piedi, però, la luce si riflette in qualcosa di inaspettato. Sono frammenti di vetro, cocci di bottiglie spezzate e gettate lì, sul marciapiede. Eppure, in quella distruzione trovo una bellezza inattesa.
I cocci, per quanto frantumati, catturano la luce dei lampioni e la trasformano in piccoli arcobaleni, una costellazione di riflessi. È come se la violenza con cui sono stati gettati a terra avesse creato, involontariamente, un’opera d’arte.
Mi fermo a osservare.
“Come può qualcosa di così brutale essere così bello?” mi chiedo.
Il vetro, rotto con rabbia o disperazione, ha trovato un modo di risplendere, di riflettere la luce che lo circonda. E forse, penso, è proprio questo che la vita mi sta mostrando: anche nella devastazione, c’è spazio per una scintilla di vitalità, per una luce che, nonostante tutto, riesce ad accendersi.
Riprendo a camminare, ma con una nuova consapevolezza, una nuova leggerezza. Non so ancora con chiarezza dove sto andando, e non importa. Forse la strada non è limpida, forse il sole rimarrà nascosto ancora a lungo, ma i riflessi, per quanto frammentati, sono lì. Mi dicono che anche nei momenti più bui, nei luoghi più inattesi, c’è sempre qualcosa che può brillare. Anche io posso brillare.
E mentre avanzo tra le ombre e i cocci di vetro, mi permetto di credere che, un giorno, troverò di nuovo la forza di alzare lo sguardo. Ma per ora, cammino tra i riflessi e le schegge, trovando un senso nel fatto che anche la brutalità può generare qualcosa di magico. E così, in questo freddo che sembra eterno, continuo il mio viaggio, aspettando la primavera che, prima o poi, arriverà.