Accadono cose che sono come domande. Poi, un bel giorno, quando te ne sei già dimenticato, va a finire che la vita risponde. Eccome se risponde. Quasi chiedesse di giocare, lei, ma con regole ignote, con carte truccate. Allora succede che ti svegli una mattina e lei ti fa sapere che hai vinto tu, almeno quel giorno. E per farlo può usare le pedine più impensabili. Può raccogliere un regista d’oltreoceano che chiamano Kore’eda e portarcelo qui con un’opera fra le mani, da noi chiamata “L’Innocenza”, capolavoro di un’arte stravagante che siamo soliti chiamare “cinema”.
Quel gran genio di Kore’eda
Hirokazu Kore’eda, nato a Tokyo nel 1962. Sessantadue anni. Regista e sceneggiatore giapponese. Non ha mai fatto mistero del suo grande talento: quello di usare il cinema meglio di chiunque altro, dopo Ozu, come strumento di indagine per scandagliare nel profondo il ruolo della famiglia, insieme a tutte le sovrastrutture e i tendini culturali che la innervano, la fanno e poi la disfano. Il mondo si accorse di lui piuttosto in fretta e cominciò a premiarlo. Qualche titolo? Citiamone tre: “Father and son” (2013), “Un affare di famiglia” (2018), “Le verità” (2019). Ma ora eccoci a parlare del suo ultimo film, onorato dal premio per la miglior sceneggiatura di Sakamoto Yuji a Cannes 2023. “L’innocenza”. Una di quelle opere che quasi non hanno gravità, eppure quando cadono nel mondo, quella volta ogni dieci anni, fanno un rumore assordante. Come se a un certo punto la vita dello spettatore s’incagliasse, in quella storia, e una parte di lui restasse inchiodata lì, accomodata per sempre. Come se una leggerezza misteriosa gli prendesse il corpo senza lasciarlo andare, mai, quasi a volerlo trattenere in un bozzolo di luce narrativo, ma di una luce trasparente a sé stessa, segretamente inseguita da una vita. Immagini scritte in versi, su cui vorremmo danzare all’infinito, dove persino il tempo afferra un sapore preciso, di quelli che si gustano solo spaccando un minuto dopo l’altro.
“Kaibutsu”
Il titolo originale, “Kaibutsu”, letteralmente significa “mostro”. E così è stato lasciato in lingua inglese, almeno nella versione presentata a Cannes: “Monster”, il mostro. Il film ha poi fatto ingresso nelle sale italiane giovedì 22 agosto 2024, portando con sé un titolo diverso, “L’innocenza”. Forse questa scelta si spiega con il fatto che l’eventuale titolazione di “Mostro”, abbinata alla copertina del film, avrebbe potuto suggerire al pubblico italiano l’idea di un prodotto legato al genere horror, troncando via una fetta di spettatori in partenza. Congetture, sia chiaro. In effetti, non si tratta di un horror, bensì di un mistery movie colorato da venature di dramma familiare e di coming of age.
La trama è molto semplice. Quando il giovane Minato inizia a comportarsi in modo strano, la madre sente che c’è qualcosa che non va. Scoprendo che la responsabilità è di un’insegnante, irrompe nella scuola esigendo di sapere cosa sta succedendo. Iniziamo seguendo le vicende del bambino con gli occhi della madre, poi del maestro, poi di Minato stesso. La verità emerge gradualmente, contraria a ogni previsione.
Solidità narrativa
La pellicola deve una buona parte della sua preziosità al solido impianto di sceneggiatura. Dobbiamo pensare a una giostra narrativa perfettamente oliata, i cui ingranaggi aprono a sorprendenti movimenti nello spazio, per cui questa sembra non essere studiata. Tre punti di vista, tre livelli di narrazione su un unico, opaco evento. La mossa geniale, però, sta nel fatto che i primi due preparano lo spettatore a qualcosa di estremamente violento, che poi non si realizza nei modi previsti. Il film si apre come noir e costruisce robuste impalcature di tensione. Che sta succedendo al piccolo Minato? Che cos’ha da nascondere il maestro? Perché è così difficile guardarsi negli occhi, capire che diavolo sta succedendo? Chi sono i mostri? Sembrerà quasi, a fine visione, di essere stati manipolati per tutto il tempo, continuamente depistati. A chi si potrà sentire preso in giro, ricordo che il cinema è esattamente questo: manipolazione. Anche il film più “onesto” è manipolatorio, a partire da cosa sceglie di inquadrare. I racconti parziali degli adulti rincorrono una figura complessiva, che dovrebbe rispondere al nome di “verità”. Ma la verità spesso è molto più semplice. Lo è quella di Minato, quella del terzo atto, dove un sussurro nella pioggia spazzerà via in una mossa i castelli di rabbia edificati dal chiasso degli adulti. Si scioglieranno in un diluvio finale, quei castelli. Due bambini, a mordere il diluvio nella notte.
L’omaggio a Miyazaki, le musiche di Sakamoto
Naturalmente un’ottima sceneggiatura non basta. È tantissimo, ma non basta. E questo il nostro Kore’da lo sa bene, è il suo lavoro. D’altra parte il cinema giapponese non ci ha mai nascosto la sua capacità di fermare la realtà in inquadrature semplici, ricercando un’idea di bellezza minimale, sintetica, cristallina. Lo fa anche qui, ma in molte inquadrature de “L’innocenza” sono infilati dettagli che lo spettatore è chiamato a pedinare con lo sguardo. Allora si aggrappa ad ogni immagine in cerca delle tracce disseminate per quel labirinto narrativo. Un esercizio tutt’altro che sgradevole, dato che la fotografia è imperlata di luci, colori e luoghi che hanno tutta l’aria di essere un bellissimo omaggio al grande cinema di Miyazaki: l’animazione incantata di quell’immaginario prende fattezze reali, senza rinunciare a una certa sobrietà di forma. Quella luce soffice e materica che perfora gli edifici sparpagliandosi a fiotti, quella che gonfia la natura e la fa zampillare in aureole sfavillanti, lì dove trova spiragli. Fiori di pesco, vortici d’acqua, autobus diroccati e attraversati da piante rampicanti. C’è tutto questo. Persino il modo di inquadrare i corpi dei personaggi può ricordare alcune favole grottesche di Miyazaki. Manca solo una cosa, una melodia su cui camminare. Ed ecco i tasti di un pianoforte. Le tracce musicali del compositore giapponese Ryuichi Sakamoto sono le ultime che ha realizzato prima di morire. Non ha nemmeno fatto in tempo a comporle tutte quante, che la malattia se l’è portato via. Comunque, la più bella arriva alla fine, ad accompagnare proprio l’epilogo prodigioso di questa storia. È un suo vecchio successo, si chiama “Acqua”.
Capolavoro?
Quando il mondo è in crisi di storie, eccone una, scritta in versi, capace di toccare le corde più intime dell’anima. La sensazione non è molto diversa da un fremito lontano che ti risale da dietro la schiena, per riportare a galla suggestioni d’infanzia bussando alle porte di una memoria informe. Quando lo incrociano, i tuoi occhi ci mettono un attimo a riconoscere un capolavoro. Sono fatti così, i capolavori. A un certo punto s’involano, pronti a inanellare meraviglie sopra di noi. Anche “L’innocenza” di Kore’eda è così. Non c’è niente da fare. Tu la guardi e lei sta lì, librata nell’aria.
Che dire, corriamo nelle sale!
Immagine in evidenza: Film Music Reporter
1 Commento
Francesco Nicosia
Ho amato tanti film del regista e sicuramente andrò a vederlo ma mi permetto di segnalare che questo articolo è scritto in modo irritante tanto che, nonostante il film sarà sicuramente interessante e ben realizzato, agisce da deterrente…