“Il ritorno di Casanova” fra Kubrick, Fellini e la morte del cinema

L’articolo nasce dall’idea di tracciare un filo critico fra il lavoro più recente di Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova (2023), e due volumi di letteratura sul cinema, ossia “Kubrick e il cinema come arte del visibile” di Sandro Bernardi e “La galassia Lumière” di Francesco Casetti. A ben vedere, infatti, il film sembra risentire, più o meno consapevolmente, degli echi visivi e tematici riconducibili a Kubrick e Fellini da una parte, e riflettere in maniera autoriflessiva sul destino del cinema stesso dall’altra.

Film nel film: “Il ritorno di Casanova” (2023)

Leo Bernardi, interpretato da uno spettinato Toni Servillo, è un regista navigato dei nostri giorni prossimo alla vecchiaia, che deve montare il suo ultimo film su Casanova appena girato, con la speranza di presentarlo in tempo al festival di Venezia. Un pensiero, però, lo trattiene dal finire il film e lo porta a rivivere i momenti con una giovane donna che aveva incontrato sul set. Al piano narrativo principale si alternano dunque flashback e scene del film in costume su Casanova. Le immagini del “film nel film” sono le uniche mostrate a colori e non in bianco e nero.

Si creano dunque, almeno inizialmente, delle corrispondenze fra cinema e realtà o, meglio, fra i due film: se Casanova, ormai vecchio, cerca di tenere disperatamente accesa la sua vis seduttiva nel tentativo di possedere la giovane Marcolina, allo stesso modo Leo Bernardi, di fronte alla vecchiaia, avverte l’urgenza di fare un bilancio, chiedendosi se il suo mestiere debba continuare a imporgli rinunce alla “vita vera”. Nel finale, però, si assisterà a una soluzione-non soluzione, a un rovesciamento di prospettiva in cui avverrà uno “scollamento” fra Casanova e Bernardi, che analizzeremo più avanti in relazione a “2001: Odissea nello Spazio”.

Fotogramma con Natalino Balasso, da “Il ritorno di Casanova”

Coincidenze?

Anzitutto, ci sono curiose coincidenze temporali e letterarie che legano questo film all’asse Kubrick-Fellini. La parte in costume ambientata nel ‘700 ricorda per molti aspetti “Barry Lyndon” di Kubrick, un film del 1975. Un anno dopo, Fellini, unico vero regista italiano di cui fosse amico Kubrick, gira “Il Casanova di Federico Fellini” nel teatro di posa numero 5 di Cinecittà, e dichiara: “Kubrick ha dilatato il Settecento in inquadrature vastissime, io invece ho fatto l’operazione inversa: l’ho compresso in ambienti piccoli”. Per giunta, il film di Salvatores è ispirato all’omonimo romanzo di Arthur Schnitzelr, scrittore austriaco molto apprezzato da Kubrick, come dimostra il suo ultimo film: “Eyes Wide Shut” (1999), ispirato al romanzo “Doppio sogno”. Esperienze diverse si incagliano nella stessa rete.

Autoriflessività

Dai suoi albori, ancora prima dell’era post-moderna, il cinema parla di sé stesso. Il ritorno di Casanovane parla soprattutto attraverso il montaggio: alla fine, infatti, è il montatore che riesce a finire il film per conto del regista. Oltre all’importanza narrativa, poi, interviene il fattore stilistico: il rapporto tracciato fra realtà e finzione, cinema e vita, è condotto mediante un’alternanza e un ritmo precisi delle immagini che viaggiano sullo schermo, si corrispondono e si contrappongono. La fotografia segue esattamente questa logica.

Come precedente, può venire in mente l’operazione che Pasolini fece nel 1963 con “La ricotta”, dove il bianco e nero veniva usato per le immagini di realtà e i colori per i tableau vivant del “film nel film”. Interessante, fra l’altro, il modo in cui il bianco e nero restituisca un effetto di maggiore realismo rispetto al colore, sebbene la vita sia a colori. Mentre nel caso di Pasolini questo contrasto indicava l’incompatibilità fra l’ingenua miseria del quotidiano e la sacra rappresentazione, in questo caso si sottolinea uno scambio dialettico fra cinema e realtà, pur non essendo i due mondi perfettamente sovrapponibili. In un certo senso, possiamo dire che Toni Servillo, che ne “La grande bellezza” era il Marcello invecchiato de “La dolce vita”, in questo film è quasi un Guido invecchiato di “Otto e mezzo”.

Lo spazio in Stanley Kubrick

L’elemento principale con cui Stanley Kubrick riflette sul cinema come falsificazione e al tempo stesso strumento conoscitivo è invece il modo di inquadrare gli spazi, che si concretizza nell’impiego innovativo di zoom, panoramiche, carrelli e primi piani. Come anticipato, il Casanova a colori di Salvatores riprende tanto esplicitamente, quanto superficialmente, “Barry Lyndon” di Kubrick.

Basta l’idea dell’eco di un immaginario sospeso nel tempo. “Barry Lyndon” è l’emblema di come Kubrick prediliga lo spazio che il critico Sandro Bernardi direbbe “cartesiano”, ossia brunelleschiano-prospettico: la scatola spaziale figlia della fotografia, figlia a sua volta della camera ottica e della pittura, che delinea uno spazio già dato, preesistente all’azione. A partire da questo, Kubrick utilizza i cosiddetti “movimenti immobili”, passando continuamente dal rappresentato (racconto) alle impalcature della rappresentazione. Si pensi al pulling back motion (zoom all’indietro) impiegato massicciamente in “Barry Lyndon” grazie al teleobiettivo: un continuo rimbalzare dall’identificazione all’estraneazione, dall’aderenza al racconto allo svelamento della finzione e della funzione teatrale della scenografia. Si passa costantemente da Griffith a Lumiére, all’insegna di un’idea della storia come materia opaca, da analizzare e osservare con sguardo multiplanare.

Spazio dato e spazio creato

Accanto allo spazio cartesiano, Kubrick concepisce lo spazio anche come “curvo”, plasmato in itinere da una visione oculare e soggettiva. La macchina a mano, utilizzata nelle scene di rissa o di forte instabilità emotiva, determina un’oscillazione dei punti di vista. La prospettiva di Brunelleschi viene sostituita da quella di Leonardo, come avviene spesso anche in Orson Welles.

Ebbene, “Il Casanova di Federico Fellini” vive solo di spazi curvi: per tutto il tempo la macchina da presa sembra galleggiare sull’acqua. Lo spazio che vediamo è uno spazio prodotto. Anche qui c’è lo svelamento del teatrale, che però passa attraverso la scenografia surreale (di realismo poetico) e i costumi assurdi. Non c’è però alcun distacco dalla narrazione. La macchina da presa resta attaccata agli spazi angusti e traballanti in cui si muove Casanova. Fatte queste considerazioni, il film di Salvatores occhieggia, seppur con un montaggio più frammentato e rapido, alla prima operazione.

Fotogramma da “2001:Odissea nello spazio”(1968)
Fotogramma da “Il ritorno di Casanova”(2023)

La vista

Un elemento che invece collega ugualmente le tre esperienze è l’importanza assegnata alla vista. Si prenda per Kubrick “Eyes Wide Shut”, dove si evidenza la differenza fra guardare e vedere. C’è un discorso che si incardina sul riconoscimento di ciò che è reale, immaginario o invisibile, nell’overdose di immagini che la modernità produce. Nel Casanova di Fellini, invece, vengono allestiti degli spettacoli porno-funerei, in cui la soddisfazione sta nel guardare e nell’immaginare coiti. Un po’ come il cinema, luogo in cui si va per rimanere fuori dallo schermo e parteciparne simultaneamente. L’immagine è seduzione, ma è un abbaglio che nasconde minacce o un mistero che maschera vuote banalità? Nel film di Fellini, Casanova spia una donna che si fa il bagno attraverso la fenditura di una tenda. Ne Il ritorno di Casanova, il vecchio avventuriero inganna la giovane Marcolina facendola bendare durante il rapporto sessuale.

Vecchiaia

L’ossessione della vecchiaia lega Fellini, Kubrick e quest’ultimo film di Salvatores, che ipotizza la morte di un certo tipo di cinema. Il finale, però, ci suggerisce che qualcosa di ancora embrionale, oscuro, incomprensibile al protagonista, seguirà. Mentre Marcello de “La dolce vita” vede emergere il mostro marino dalle acque, Leo Bernardi vede apparire sul litorale di Venezia la ragazza di cui si era invaghito e che aveva poi allontanato alla notizia di una gravidanza. Il regista è riuscito a portare a Venezia il suo film, ma la Palma d’Oro è stata vinta dal giovane regista che Leo Bernardi invidiava e irrideva.

Casanova riesce a passare una notte di amore con Marcolina e vince il duello finale contro il giovane contendente. Tuttavia, capisce di aver perso tutto, nella consapevolezza che la giovinezza non gli verrà restituita. Bernardi tocca la pancia gravida della giovane sul litorale, senza dire nulla. Quasi un gesto di “deissi”, l’operazione di indicare, di dare un senso senza dire nulla, in modo che le immagini parlino da sé. Come l’astronauta invecchiato di “2001: Odissea nello spazio” indica in silenzio il monolite nella stanza. Forse il regista interpretato da Toni Servillo prende atto di questo e contemplerà l’ipotesi di avere un figlio e continuare parallelamente l’attività, o magari avrà capito che non è più in grado di interpretare cinematograficamente una realtà in continuo cambiamento.

Con queste premesse, il finale che inquadra il grembo della giovane può ricordare il feto astrale con cui si chiude “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick. All’avvenire si consegna l’idea che qualcosa di nuovo è sul punto di sorgere. Che cosa sia, in effetti, resta oggetto delle speculazioni di ciascuno.

Il feto astrale di “2001: Odissea nello spazio”

Immagine in evidenza: Exibart

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