Cinema di paura: le chicche di Kiyoshi Kurosawa

Troppo spesso il cinema dell’orrore viene derubricato a intrattenimento spiccio, a vuota valvola di sfogo per saziare lo sguardo delle pulsioni e perversioni più turpi. Eppure, la paura è forse il muscolo dell’uomo più interessante da esplorare. Il problema, semmai, è trovare horror e thriller che abbiano qualità e spessore. Ecco allora alcune chicche d’autore: tre film di Kiyoshi Kurosawa.

Cure” (1997)

Kenichi Takabe è un detective della polizia metropolitana di Tokyo. La città inizia a tappezzarsi di omicidi, e tutte le vittime riportano sul petto un taglio a X: classica operazione di un serial killer. Peccato che gli assassini siano sempre diversi. Questi confessano il crimine alla polizia, senza però ricordare il movente che li ha spinti a commetterlo. Si deciderà, allora, di seguire un’improbabile pista alla ricerca di un unico regista capace di esercitare l’ipnosi. Il nostro protagonista, che regala al mondo un’interpretazione magistrale nel suo autocontrollo carismatico, è lo stesso attore che abbiamo visto giganteggiare di recente in “Perfect Days”: un giovane Koji Yakusho. Il detective deve restare lucido, ma la sua delicata situazione familiare sembra destinata a mescolarsi nel sangue comune dei coinvolti.

Quest’horror psicologico trova la sua preziosità nel ribaltamento raggelante dei meccanismi di suspence. Di solito, in film del genere, la tensione va costruita e preparata con musica, montaggio serrato, alternanza di inquadrature o spie narrative precedenti. Qui, invece, gli omicidi avvengono in maniera del tutto naturale, senza preavviso e senza motivo, come fossero dei gesti di routine, in una temperatura registica fin troppo immobile. Siamo molto lontani anche dalla logica del jumpscare. Viene quasi eliminata la musica e le inquadrature predilette sono dei freddi campi larghi. Non c’è rabbia né rancore nei carnefici. A ben vedere, una delle paure più diffuse: lo scoppio della violenza immotivata da parte di chi un minuto prima viveva tranquillo accanto alla vittima. Quello che colpisce è l’approccio estremamente minimale e sintetico nel raccontare per immagini, coniugato a un efficace isolamento dei suoni interni al racconto e alle frequenti invasioni di un silenzio assordante.

Ogni inquadratura, giocata sulle sagome, rivela molto più di mille parole. Inquadrature semplici, illuminate al punto giusto, partecipano a un montaggio brillante e catalizzante nella sua lentezza. Al montaggio sapiente si deve anche la possibilità di distinguere le immagini reali dalle immagini verosimili, ma autosuggestionate dei personaggi. “Cure” è un viaggio disincantato nelle voragini più recondite dell’animo umano, e il finale (uno dei più belli del cinema horror) pronuncerà una sentenza per nulla ottimista.

Koji Yakusho in “Cure”, da Visualcult

Pulse” (2001)

Questa è l’opera che ha reso Kiyoshi Kurosawa maggiormente noto, soprattutto nel mondo cinefilo. Il film contiene alcune fra le sequenze più inquietanti della storia del cinema. All’inizio, sembrerebbe un caso di j-horror del tutto canonico: in tutto il Giappone si assiste a un fenomeno di sparizioni di massa. Uomini e donne di ogni età si collegano a un sito Internet che si apre con la domanda “Vuoi incontrare un fantasma?” Da lì, un rapido scivolare verso un isolamento che li condurrà al suicidio e alla sparizione corporea. Fantasmi e tecnologia. La verità, però, è che “Pulse” è un grande film sulla solitudine.

I fantasmi non raggiungono la nostra dimensione per spaventarci, ma per essere salvati dalla solitudine. Parallelamente, le vittime decidono di togliersi la vita perché sperano di trovare qualcuno come loro dall’altra parte. Si scopre, tuttavia, che si è soli anche dopo la morte. La solitudine è una condizione umana quasi impossibile da cancellare, che ci accompagna simbolicamente agli estremi della nostra vita, la nascita e la morte. Allora chi sono i fantasmi? La grande intuizione del film è proprio questa: mettere in discussione il primato di quella che noi chiamiamo “vita reale”, ma dove ci si adagia su una tecnologia che ci illude di connetterci l’uno con l’altro e che in realtà continua a renderci soli in mezzo agli altri. Combattere i fantasmi significa rompere lo specchio su cui riposa il nostro riflesso. Il finale apocalittico sulla nave in mezzo all’oceano è qualcosa che toglie il fiato.

Nella pellicola si porta a compimento il lavoro certosino sulle sagome, incastonate in luoghi e spazi avvolti da ombre polverose e malaticce. L’illuminazione e la fotografia di questo film dimostrano una ricerca stilistica spaventosamente abile. Il montaggio, degno di essere studiato nelle scuole di cinema, restituisce anche qui un ritmo lento e ricco di fascino.

Un fotogramma di “Pulse”, da MUBI

Serpent’s path” (1998)

Letteralmente il titolo significa “Sentiero del serpente“. Più che un horror, siamo in presenza di un grandissimo thriller. La trama è molto semplice. Un uomo esige la sua vendetta per lo stupro e l’omicidio della figlia, vittima di un gruppo di criminali della yakuza (mafia giapponese) che realizza e vende snuff movie. In questo è aiutato dall’ex insegnante di matematica della bambina.

La prima operazione interessante che il regista mette in atto consiste nella scrittura di un protagonista che non muove il pubblico all’empatia, anzi. Capiamo subito che questo padre è animato da qualcosa di ben lontano dal dolore causato dalla predita di una figlia. Gli si legge negli occhi una morbosità indomata, ai limiti della schizofrenia. A generare un effetto stridente è anche la presenza di questo calmo, sempre lucido insegnante che sembra assecondarlo in ogni iniziativa. In effetti, troviamo la conferma di una presunta anomalia quando in un flashback vediamo l’insegnante e la bambina disegnare equazioni matematiche sul pavimento di un parco. Il protagonista si avvicina incuriosito e chiede all’insegante se la bambina sia sua figlia. Lui risponde che è una sua alunna.

La seconda grande operazione è quella dell’ellissi: oltre a questo scivolamento nel passato, non conosciamo nient’altro. Tale stratagemma rende il film una specie di thriller astratto, basato sulla rimozione di una parte del racconto che non sapremo mai, ma che possiamo immaginare in mille modi.

Un fotogramma di “Serpent’s path”, da Cine Outsider

Avvertenza: i tre film sopracitati, così come gran parte della filmografia di Kiyoshi Kurosawa, sono difficilmente reperibili. Pur essendo passati in televisione nel corso degli anni, non sono mai stati veramente distribuiti in Italia. E ciò non fa altro che aggiungere mistero attorno a queste opere così peculiari. Il consiglio è quello di industriarsi a trovare le versioni sottotitolate in lingua inglese. Ne vale la pena.

Immagine in cui evidenza: Siff

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