Una calda domenica di luglio. Troppo calda. L’umidità che colava dall’alto costringeva la città di Milano a svuotarsi, e i suoi abitanti a rifugiarsi in freschi luoghi di sopravvivenza. Molti, quel 14 luglio, si erano infilati in un cinema per assistere alla prima di “Dostoevskij“, l’ultimo strano animale narrativo dei Fratelli D’Innocenzo. Io mi trovavo al cinema Beltrade. Fu allora che pensai a una serie di curiose convergenze fra “Palpebre”, “Dostoevskij” e Donald Trump.
Leggi tutto: Le strane convergenze fra “Palpebre”, “Dostoevskij” e Donald TrumpPRIMO MOVIMENTO: ALLEGRO NEL SANGUE
Se ricordate, quella mattina il mondo si svegliò con una notizia, anzi, con un’immagine. Quella che vedeva Donald Trump alzarsi da una corazza di guardie, con il pugno stretto in aria e un fascio vivo di sangue scarlatto che sporcava il suo viso a partire dall’orecchio destro per poi sfrangiarsi sulla guancia, dopo aver sfiorato i proiettili mortali del suo attentatore durante un comizio in Pennsylvania. Diversi studi ci dicono che oggi vediamo più di 500 000 immagini nell’arco di una giornata. Nel Medioevo, una persona entrava in contatto con pochissime rappresentazioni, circa 40, nel corso di un’intera vita. Quella, per molti, fu la prima immagine del giorno.
Nelle stesse ore, il massacro a Gaza proseguiva con un nuovo raid israeliano su una scuola, causando decine di morti civili. Eppure, l’irrefrenabile slancio con cui quell’immagine si propagava nel web finiva per adombrare tutto il resto: era chiaro che sarebbe diventata un’icona della storia politica americana.
Raccogliendo qualche testimonianza, è emerso come a molti non bastasse spaccare con lo sguardo ogni secondo del filmato che registrava l’accaduto. Ci si adoperava a scovare i video che potessero mostrare l’uccisione dell’attentatore, articoli che riportassero i dettagli più introvabili. Di certo, nessuno avrà pensato di essere l’unica vittima di tanta, forse morbosa, curiosità. A un certo punto precipitò nella rete una fotografia che addirittura era stata in grado di congelare nello spazio uno dei proiettili destinati al candidato americano. L’aveva scattata Doug Mills per il New York Times, con una velocità dell’otturatore di 1/8.000 di secondo.
SECONDO MOVIMENTO: ADAGIO NEL BUIO
Di fronte a fatti del genere, verrebbe naturale porsi qualche semplice domanda. Ad esempio, che diavolo sarebbe successo in USA se quel colpo, invece dell’orecchio, avesse trapassato la sua nuca in mondovisione? E soprattutto, i presenti a quel comizio erano consapevoli che le immagini dell’accaduto sarebbero state molto più importanti, più pesanti, per certi aspetti più “vere” (o molto più false) dell’accaduto in sé? Su questo, in qualche modo può esserci utile un libro pubblicato per la prima volta nel 2010, recentemente uscito in una nuova edizione: “Palpebre“, di Gianni Canova. In quelle pagine, probabilmente, troverete una storia amica e dispettosa al tempo stesso. Amica perché uno degli ambienti chiave è proprio l’università. Perché è dispettosa, lo scoprirete leggendo quel libro.
Giovanni Vigo, il protagonista del racconto, lavora per una radio insieme al suo amico Simmel, un luogo dove può esprimere la sua intraprendenza nel pericoloso tentativo di attualizzare i suoi studi letterari, in maniera spesso divisiva. Vigo è infatti un giovane studioso che conduce ricerche su come Dante infligge le pene ai peccatori nel Purgatorio, soffermandosi con particolare attenzione al XIII canto, riservato agli invidiosi. A questi, che in vita hanno rivolto agli altri uno sguardo malevolo, vengono cucite le palpebre, sipario della vista. Giotto, invece, nella Cappella degli Scrovegni mutila i dannati in ogni parte del corpo senza toccare i loro occhi. Secondo quest’intuizione più moderna, la vera punizione starebbe appunto nella visione obbligata dell’orrore altrui. E proprio a partire dallo sguardo che Vigo poserà su una giovane donna, comincerà il suo viaggio verso un inferno senza ritorno. Una discesa all’insegna della vista come colpa e punizione al tempo stesso. Vigo e Simmel non sanno che presto si immischieranno in un affare in cui era meglio non entrare, almeno non da soli. I loro ideali e propositi intellettuali verranno spazzati via da una violenza non priva a sua volta di una logica.
Il romanzo è ambientato nel 2004, quindi nel periodo in cui circolavano le immagini delle decapitazioni degli ostaggi in Iraq sulle prime pagine dei giornali e in cui allo stesso tempo usciva “Kill Bill” di Tarantino. La lettura di “Palpebre” potrebbe rivelarsi un’occasione per riflettere sulla pretesa ormai fin troppo ingenua e miope di separare la realtà dalla rappresentazione, i fatti dalla narrazione. Si tratta del tramonto finale di quella presunzione che vuole appendere i due livelli su piani di gravità differente, come se non fossero irrimediabilmente mescolati, indivisibili, in continuo dialogo, come se oggi realtà e rappresentazione non si rimpolpassero vicendevolmente di senso. Ma ora, se siete pronti, sprofondiamo insieme nel buio della sala. Comincia la rappresentazione. Comincia “Dostoevskij“, un’opera divisa in primo e secondo atto.
TERZO MOVIMENTO: SCHERZO FRA LE IMMAGINI
A un primo sguardo, non può sfuggire come il buio stratificato e grumoso di quel film girato in pellicola sia tremendamente anti-televisivo, sebbene sia destinato a spostarsi su Sky. Dostoevskij è il soprannome che il piccolo distretto anonimo di polizia provinciale affibbia a un serial killer, riconoscibile soltanto perché lascia sulle scene del delitto una lettera scritta a mano, su cui stende il ritratto della vittima nei suoi ultimi palpiti nello stretto intercapedine fra la vita e la morte. Un film ascrivibile al cosiddetto “poliziesco della frustrazione”, come l’iconico “Memorie di un assassino” di Bong Joon-ho o il capolavoro (meno noto) “Cure” di Kiyoshi Kurosawa, film in cui il detective fa dell’indagine un percorso talmente personale da entrare in una crisi profonda che lo porta a fare scelte moralmente discutibili.
Al vezzo omicida sopracitato potrebbero allacciarsi come un riverbero le parole di Susan Sontag che Canova inserisce nella post-fazione del romanzo: “Da tempo ormai si capta nell’aria più desiderio di vedere corpi che soffrono che corpi che godono”. Rimbalziamo nuovamente alla visione del film. A un certo punto Dostoevskij lascia scritto che “i corpi non sono mai così liberi come quando bruciano”. Nella stessa lettera il killer ritraeva due amanti nel pieno svolgimento di un rapporto sessuale prima di finire in fiamme. E poi, chi ha visto il film lo sa: il primo atto si chiude proprio con un corpo che soffre (Vitello, interpretato da Filippo Timi) mentre guarda sullo schermo di uno smartphone un corpo che gode (Ambra, interpretata da Carlotta Gamba).
QUARTO MOVIMENTO: FINALE NEL DUBBIO
Per certi aspetti, la vista è sempre stato il più fidato dei sensi. Oggi no. Tutto è molto più complesso e la vista non basta più. Un po’ come se l’occhio fosse soltanto un ponte per congiungersi al contatto con la materia attraverso la combinazione degli altri sensi, giungere a qualcosa che non lasci dubbi, che non termini nell’incertezza dell’immagine. Forse è per questo che nel magma della civiltà delle immagini solo il dolore ci restituisce un’idea di autenticità. Un corpo non è mai più vivo di quando muove i suoi passi sul precipizio sdrucciolevole della morte. “Dostoevskij” suda gelida materia, odori repellenti, corpi fumanti. Un filo dello stesso colore scarlatto inizia a legare ogni cosa.
Trovate in rete la recensione di Canova sul film in questione. A un certo punto scrive: “Il film disseziona i volti e i corpi dei personaggi (occhi dita labbra denti cute nasi ciglia palpebre viscere) e ne fa paesaggi di carne analoghi al paesaggio degradato in cui è dato loro vivere. Abbaiare di cani nel buio”. Da rimanere spiazzati. Il soggetto di questa frase potrebbe benissimo essere sostituito con “Palpebre”. Non c’è un solo elemento fuori posto. In “Dostoevskij” si dissezionano corpi, in “Palpebre” c’è un’organizzazione clandestina che asporta pezzi di corpo per poi ricucirle in posti insospettabili: carne umana al servizio del macabro e divertito sguardo altrui.
Ancora. In entrambi i racconti, una buona dose di angoscia è causata dalla totale mancanza o interruzione di rapporti diretti con i media (giornali e radio). Ancora. Verso la fine di queste due storie, nel massimo momento di tensione, viene chiesto a un personaggio di scrivere. A Vigo chiedono di impaginare gli orrori dell’organizzazione clandestina in cui si è imbattuto, a Dostoevskij viene chiesto di scrivere il suo ultimo ritratto prima di morire. Ancora. La comune presenza di “cattivi maestri”. E il Purgatorio? In effetti Enzo Vitello, il poliziotto ossessionato dal killer, vive un purgatorio esistenziale per tutto il tempo, in bilico fra il non più e il non ancora, fra il giusto e l’ingiusto. È un postumo in vita. Entrambe le drammaturgie si reggono su un’ossessione che muove i personaggi. E poi, il gran finale. La vittima prosegue il lavoro del carnefice. L’eroe, se così può definirsi, non ha la forza di ripulirsi dal fango in cui ha lottato. Alla fine della corsa, la più tremenda delle sorprese: uno specchio, che lo costringe a guardare il mistero dentro di sé. I rispettivi protagonisti uccidono i loro “cattivi maestri”, giocandosi la carta proibita che fino a quel momento avevano osteggiato.
In entrambi i casi, comunque, un interrogativo necessario resta irrisolto tra le righe: oggi ha ancora senso una condanna del “voyeurismo” e della pornografia del dolore, considerata la seduzione che solletica lo spettatore, magari come effetto collaterale di un problema collocato altrove? Oppure è proprio oggi che andrebbe riscoperta e applicata un’etica dell’immagine? E come può esistere un’etica delle immagini senza prima un’educazione alla loro lettura e analisi?
Ma forse, il problema non sono nemmeno le immagini, nient’altro che un riflesso capace di sondare chi le guarda. Perché “Palpebre” e “Dostoevskij” funzionano e risvegliano lo spirito critico delle immagini? Perché in questi testi non ci è concesso scaricare le nostre ombre su qualcun altro, non ci è permesso puntare il dito sul mostro in prima pagina, trovare conferma che noi siamo quelli “normali”. Non ci è data la consolazione di poter sospirare e ricordare a noi stessi che “noi non siamo il mostro”.
C’è una piccola nota esperienziale che potrebbe essere utile. I Fratelli D’Innocenzo, che quel giorno compivano gli anni, erano in sala al Beltrade per raccogliere le impressioni del pubblico. Con nitida memoria, riporto una frase che Damiano pronunciò in quell’occasione: “Più che il nostro quarto film… credo che questo sia il nostro primo romanzo”.