Un grande merito va riconosciuto al governo di Giorgia Meloni: quello di aver permesso a migliaia di studenti fuori sede di votare alle Elezioni Europee senza doversi spostare. Dopo la parte I, continuiamo la nostra rassegna di paradossi italiani proprio a partire dalle ultime elezioni, trasformate in un laboratorio di consenso interno con una certa spregiudicatezza.
Candidature Europee: si accettano comparse e defunti
Inizialmente non si era ben capito che la campagna elettorale per le Europee fosse iniziata, non tanto perché i politici si fossero ridotti all’ultimo, ma perché si erano portati avanti: non avevano mai smesso. Una campagna curiosa, peraltro, in cui gli argomenti di discussione ruotavano attorno alla politica interna, in assenza di programmi per l’Europa chiari e convincenti. L’alta considerazione che in Italia abbiamo di questo genere di elezioni, con due guerre alle porte di casa, ci ha portati a candidare delle figure i cui legami con l’Europa sembrano sfuggire, soprattutto quanto a Ilaria Salis e Roberto Vannacci. Difficile valutare le rispettive visioni sull’Europa dei due, dal momento che non sono rintracciabili. A Ilaria Salis la candidatura è valsa per ottenere l’immunità parlamentare, esercitata con la sospensione della detenzione in Ungheria. Il secondo, invece, ha dato prova di non avere nemmeno un’opinione sullo “ius culturae”, perché “non conosce bene il tema nel dettaglio”.
Siamo riusciti a votare anche i defunti, come il compianto Silvio Berlusconi, nome “acchiappavoti” nel simbolo di Forza Italia (solo i partiti italiani hanno il nome nel simbolo, solitamente di persone ancora in vita). Siamo corsi a votare Giorgia Meloni, cioè l’unica che certamente non sarebbe potuta andare al Parlamento Europeo. Chi andrà al suo posto? ventiquattro luminari della classe dirigente di Fratelli D’Italia, fra cui magari un Pozzolo o un Lollobrigida qualsiasi, comunque soggetti rispetto ai quali Meloni può ricordare vagamente Churchill.
“Fratelli D’Italia ha aumentato il consenso”
Dopo le elezioni, tutti gli oppositori della Meloni si sono affrettati a confutare questa tesi, che in realtà non è né vera né falsa. Se ragioniamo in termini percentuali, Fratelli D’Italia è passato dal 26% delle politiche del 2022 al 28,8% dei consensi alle Europee, guadagnando circa tre punti in più. Se invece osserviamo in termini assoluti, lo stesso partito ha perso seicentomila voti. Ma coloro che si affannano a precisare questo dato negativo non tirano acqua al loro mulino per due ragioni. Intanto, alle Europee c’è sempre stata molta meno affluenza rispetto alle politiche. Ma soprattutto, proprio in virtù del primo punto, significa che quei pochi che sono andati a votare hanno scelto la Meloni a maggioranza relativa, ancor più di due anni fa. Così come non vogliono dire nulla le dichiarazioni di Elly Schlein secondo cui il Partito Democratico sarebbe quello con la crescita più alta nei consensi.
In realtà, proprio i termini assoluti invocati dagli anti-meloniani ci dicono che Alleanza Verdi-Sinistra ha preso seicento mila voti in più rispetto alle nazionali, una crescita non paragonabile al risultato (comunque ottimo) del PD. Classico caso in cui l’opposizione si oppone a sé stessa e non se ne accorge.
“Cane e gatto”
La narrazione comune prima delle Europee voleva che le due leader di Fratelli D’Italia e del Partito Democratico fossero agli antipodi politicamente. In realtà, sulle due questioni cruciali nell’Europa di oggi, cioè guerra Russia-Ucraina e politiche di austerity economica, le due leader la pensano allo stesso modo. Entrambe sono favorevoli all’invio di armi in Ucraina, entrambe nei loro programmi non fanno cenno alla vendita di armi (anche da parte dell’Italia) ad Israele. Inoltre, il governo Meloni sta portando avanti le stesse politiche economiche di Draghi, governo tecnico appoggiato anche dal PD, a cui solo Fratelli D’Italia, paradossalmente, faceva opposizione. Hanno votato esattamente allo stesso modo sul patto di stabilità e sull’uso di fondi del PNRR per comprare più armi. Più che cane e gatto, in Europa sembrano due gatti che fanno la gara a chi ha il pelo più nero.
”Giornalismo imparziale”
Nel nostro Paese si è coniata un’espressione che dovrebbe esprimere il modo corretto di esercitare la libertà di stampa: “giornalismo imparziale”. Questo perché si tende a usare il termine “giornalismo” come sinonimo del termine “cronaca”, cioè la registrazione oggettiva e impersonale di fatti. Ma se apriamo la prima parola, al suo interno troviamo un ventaglio piuttosto variegato: cronisti, editorialisti, reporter, critici letterari, cinematografici, d’arte e giornalisti d’inchiesta. Che cosa significa esattamente che il giornalista deve essere imparziale? Che non deve prendere posizione? Eppure, sarebbe difficile fare anche solo uno dei grandi nomi del giornalismo del passato che non prendevano posizione.
Altra cosa è il pregiudizio di chi non scrive per il lettore ma per tutelare un potere specifico o il potere di turno, tacendone i punti problematici. Allora sarebbe più calzante l’espressione “disonestà intellettuale” invece di “mancata imparzialità”. Di solito i giornalisti definiti “imparziali” sono quelli più critici. A coloro che fanno una critica in più invece che una in meno, spesso viene mossa la seguente obiezione:
“Facile criticare, perché non vi candidate voi”? D’altronde anche il chirurgo, se sbagliasse l’organo da trapiantare, per giustificarsi direbbe al paziente: “Facile criticare, perché non se lo trapianta lei l’organo giusto”?
Immagine in evidenza: ECCO Climate