Torna in scena il tema dell’Essenziale sul palco del Wired Next Festival: due giornate di eventi a Milano che hanno avuto come focus la riflessione su cos’è oggi essenziale per comprendere come la tecnologia stia segnando un mondo che non è totalmente polarizzato ma fatto di molte sfumature. A parlarne il Professore Paolo Legrenzi.
L’incontro con Paolo Legrenzi
Durante le giornate del Wired Next Festival il pubblico ha avuto la possibilità di partecipare a numerosi talk, exhibition, workshop e gaming. Tra questi c’è stato anche l’incontro con Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia presso l’Università Cá Foscari di Venezia, per la presentazione del suo nuovo saggio: “L’intelligenza del futuro”. E quale se non il tema dell’Intelligenza Artificiale per parlare, forse oggi più che mai, dell’interazione tra tecnologia e esseri umani?
Legrenzi ci ha offerto l’opportunità di scambiare con lui una serie di riflessioni e opinioni sull’impatto che i nuovi sistemi generativi hanno, e avranno, sulle nostre vite, partendo dal mondo del lavoro, passando per il discorso sulla creatività e sulla coscienza, fino ad arrivare alla familiarità e comprensione dell’IA. In seguito è proposta una breve intervista che racconta il suo punto di vista a riguardo.
Professore, vivremo in un mondo in cui le intelligenze artificiali avranno immagazzinato talmente tanti dati da dimostrare un’eloquenza, una capacità di ragionamento, di argomentazione e manipolazione capace di travolgerci? Saranno più brave di noi a raccontare storie?
Qui entra in gioco la questione sulla creatività. Spesso si sente dire che i programmi generativi non creano nulla: si addestrano in rete, rielaborano cose già note perché, appunto, depositate in quell’enorme magazzino che è Internet. La loro è una “creatività” definita “ricombinatoria”, cioè capace di fare associazioni tra idee e concetti che qualcuno ha già espresso in passato. Ma anche uno scrittore usa un magazzino, solo che è personale e non collettivo, fatto di esperienze di vita rielaborate con la mente e con il cuore. Il confine sta diventando sempre più poroso e labile.
Inventare storie è una capacità da sempre squisitamente umana, che ora sanno imitare anche le macchine. La novità rivoluzionaria rispetto alle enciclopedie tradizionali, a partire da quella degli Illuministi di Diderot e arrivando a Google, è proprio la loro capacità di costruire (se invitati a farlo) mondi controfattuali, immaginari.
Qual è allora il valore della nostra intelligenza?
Gli algoritmi complessi funzionano solo in situazioni ben definite in cui sono disponibili grandi quantità di dati, il cosiddetto “mondo stabile”. Gli ambienti ideali per l’apprendimento sono infatti quelli dei calcoli matematici o dei giochi, come gli scacchi o il GO. Sono pessimi invece in mondi come quelli del traffico stradale, dove le cose possono cambiare improvvisamente. L’intelligenza umana ha, per nostra fortuna, una storia del tutto diversa, nel senso che si è evoluta in modo da saper gestire l’incertezza, anche quella derivante dalla presenza di un caso singolo mai incontrato prima.
Il mondo è fatto di cose che non sappiamo, e di cose che non sappiamo neppure di non sapere. In tutti questi casi l’uomo può fallire ma può anche avere successo. Incontra novità inaspettate, le affronta con occhi nuovi, sa decidere scartando l’irrilevante e trovando cose mai pensate prima: in una parola è creativo, in un mondo in cui non vale il principio della stabilità.
Ha senso chiedersi se queste macchine prenderanno coscienza e si ribelleranno ai propri creatori come Hall 9000 in 2001: Odissea nello spazio?
Se si vuole costruire delle storie affascinanti e coinvolgenti, allora sì. Se una macchina resta passiva e obbediente ai nostri ordini certamente c’è poco sugo per una narrazione coinvolgente, ma appunto si tratta di fantascienza. I computer in realtà non prendono mai coscienza né hanno bisogno di libero arbitrio perché ne è già dotato l’uomo che li usa. Un computer cosciente sarebbe un doppione ridondante e ingombrante, prima ancora che potenzialmente fuori controllo.
Questo fraintendimento nasce da un modo di fare e pensare fuorviante: l’antropomorfizzazione. Si tratta di una sorta di egocentrismo della specie, e cioè la proiezione dell’umano su tutto ciò che ci circonda. In realtà l’uomo per primo non utilizza la coscienza sempre, ma solo quando gli serve. Nella maggior parte dei casi è più che sufficiente muoversi e agire in modi automatici, fissati dalla ripetizione e dall’esperienza passata, seguendo azioni già collaudate oppure suggerite dagli istinti.
Nel suo libro non parla solo di intelligenze ma anche di stupidità naturale, ha senso parlare anche di stupidità artificiale?
No, non ha senso poiché tutte le carenze, gli errori, le fallacie sistematiche che troviamo nei programmi generativi sono ricavate, desunte dalle stupidità già presenti nelle fonti con cui vengono alimentati. Ai due estremi della creatività e della stupidità l’uomo manterrà infatti per lungo tempo il primato e i sistemi generativi non potranno fargli concorrenza. Insomma l’uomo non è simulabile né sostituibile nelle due forme estreme di espressione di intelligenza e di sua totale mancanza: la creatività originale e le stupidità sorprendenti.
Cos’è essenziale comprendere in questo complesso rapporto tra noi e la tecnologia?
Comprendere appieno l’IA richiede innanzitutto una profonda conoscenza dell’intelligenza umana. Non si può sfiorare nemmeno la natura dell’Intelligenza Artificiale se non cerchiamo di spiegare e capire come funziona quella naturale, ovvero la sua creatrice. In fondo siamo noi che li abbiamo creati e siamo noi che li usiamo. Dall’ignoranza che abbiamo nei confronti della nostra intelligenza naturale, nascono fraintendimenti nei rapporti con l’Intelligenza Artificiale.
I programmi che girano su computer e i computer stessi sono stati progettati da uomini e tutto il processo è progredito sotto il controllo degli ideatori, dei progettisti. Ogni passaggio è stato formalizzato e concepito in modo esplicito. La mente umane invece è plasmata dall’evoluzione naturale da centinaia di migliaia di anni. È il frutto di processi di variazione casuale, selezione e adattamento. In altre parole, poco sappiamo del cervello e di come esso produca la mente: conosciamo il risultato ma possiamo solo fare ipotesi sui processi. Al contrario sappiamo tutto del nostro smartphone. Di cosa dovremmo avere più paura? Di ciò che è ancora largamente sconosciuto o di ciò che è stato progettato e seguito sotto il controllo dell’uomo?
A proposito, lei nel finale del suo saggio scrive: “Non dobbiamo temere questa tecnologia perché il suo funzionamento è sconosciuto ai più ma perché è conosciuto dai pochi”, può spiegarcelo meglio?
Per l’opinione comune è la familiarità che conta, non la comprensione. È proprio il successo e la diffusione nell’uso di una macchina che fa svanire la sua magia. Ma il problema è in realtà l’asimmetria enorme tra chi ha costruito questi strumenti, li sa usare e li controlla, contro chi non sa. Quello che si può fare è spiegare per lo meno gli elementi basilari poiché l’ignoranza di questi ultimi ci rende vulnerabili. Il mondo si dividerà sempre più tra chi sa e chi non sa. Meglio attrezzarsi e stare dalla parte giusta.
Immagine in evidenza: Wired