Il termine pinkwashing nasce dalla crasi tra “pink”, colore che convenzionalmente viene ancora impiegato per riferirsi alla femminilità e “whitewashing” (imbiancare, nascondere).
Come nasce il termine “pinkwashing”
Nella sua accezione attuale, “pinkwashing” indica la pratica aziendale di sfruttare linguaggi e valori del femminismo per avere un ritorno economico e in termini di immagine. Il termine è stato impiegato per la prima volta nel 2002 dalla Breast Cancer Action, un’organizzazione statunitense a supporto delle donne con il cancro al seno, per discostarsi dalle campagne di marketing che utilizzavano il “pink ribbon” (il fiocchetto rosa simbolo della lotta alla malattia), pur promuovendo prodotti fortemente sconsigliati dagli esperti di oncologia. In risposta a questa pratica, l’associazione decise di lanciare la campagna “Think before you pink“, sottolineando la necessità di affiancare alle operazioni pubblicitarie un coerente programma educativo. Attualmente le tre occasioni in cui si registra una concentrazione di fenomeni di questo tipo sono: l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, il 19 ottobre, Giornata Internazionale contro il Cancro al Seno e il 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Le sfumature del pinkwashing oggi
A fronte del recente incremento del dibattito sulla parità di genere e delle iniziative contro la violenza sulle donne, il termine ha assunto sfumature diverse. Viene infatti impiegato per indicare le tematiche femministe promosse dall’industria pubblicitaria per avvicinare consumatori sensibili alle tematiche sociali. Valori che tuttavia non hanno un riscontro concreto nella cultura e nelle pratiche aziendali di chi porta avanti questa narrazione. Al contrario, molto spesso quegli stessi valori alimentano gli stereotipi culturali. Esempi di questo tipo sono molto frequenti nell’industria del fast fashion, che se da un lato spinge sempre più su claim di empowerment femminile, dall’altro presenta ancora ingenti problematiche per quanto riguarda la condizione lavorativa delle dipendenti nelle fabbriche tessili in alcuni Paesi. Il rischio è dunque quello di una distorsione della percezione sociale sulla progressione della lotta per la parità.
Il lato educativo dell’advertising femminista
D’altra parte però, se è giusto condannare l’etica di questa pratica e cercare di smascherarla, è pur sempre vero che assumere una posizione estremamente critica a riguardo potrebbe anche generare un effetto controproducente. A prescindere dall’intenzione strategica che risiede dietro a queste operazioni di marketing, infatti, i canali impiegati dalle aziende hanno potenzialità per raggiungere quante più persone possibili, avendo esse un budget molto più cospicuo della maggior parte delle associazioni che si occupano di queste tematiche. Questo permette loro di svolgere un ruolo educativo, seppur magari non intenzionalmente. Oltretutto, l’advertising femminista può essere considerato un primo passo mosso dalle grandi corporate verso un atteggiamento più sostenibile ed inclusivo, utile a generare dialogo, dibattito e interazione sociale.
Cheers to all campaigns
Esempi positivi sotto questo aspetto sono quelli di Mattel, azienda di giocattoli statunitense ed Heineken, azienda olandese produttrice di birra. Entrambe hanno effettuato un rebranding in chiave più inclusiva tramite celebri pubblicità: si pensi a Cheers to all fans di Heineken per quanto riguarda l’ambito sportivo o allo storytelling che ha accompagnato le ultime Barbie prodotte da Mattel. Le aziende in questione hanno poi associato il tutto a iniziative più concrete. Fresher Football della Heineken ne è un esempio: intercetta le ricerche online, acquista AdWords chiave in base alle domande più popolari sul calcio e corregge le risposte attuali con statistiche accurate basate sul gioco maschile e femminile, affinché anche quest’ultimo possa essere celebrato.
Un compromesso possibile
Oggi esistono delle soluzioni specifiche per contrastare il pinkwashing, soprattutto quando questo avviene online. Qualche anno fa, ad esempio, Twitter (X) lanciò un bot capace di rispondere alle aziende che postavano pubblicità femministe riportando il loro divario retributivo di genere interno. Questo strumento non selezionava solamente le aziende con un deficit salariale, ma anche quelle dove c’era parità o addirittura un surplus, così da poterle valorizzare. Un modello di questo genere è efficace perché da un lato permette di contrastare una pratica che a lungo andare può rivelarsi dannosa, dall’altro crea un dialogo con le aziende stesse (potendo queste rispondere alla segnalazione e intraprendere una conversazione). L’obiettivo è quello di avviare le aziende a un percorso che le aiuti a implementare le iniziative di marketing, di per sé comunque utili seppur ancora troppo superficiali, con azioni concrete a lungo termine per contrastare il gender gap.
Immagine in evidenza: studioerica.it