Arte come riflesso di emozioni

Per quanto possa risultare una cosa improbabile, se non impossibile, l’arte piace a chiunque.
Ma come può essere verosimile questa affermazione se, fino a prova contraria, l’arte è soggettiva? È vero, può piacere e può non piacere, eppure è proprio questa soggettività a renderla un capolavoro agli occhi di chiunque.  

Beh, ma allora qualsiasi cosa può essere arte no? potrà pensare qualcuno di voi leggendo, ma per capire veramente quello che ho appena scritto c’è bisogno di porsi una domanda.

CHE COS’E’ L’ARTE?

Google non sbaglia a definirla come qualsiasi forma di attività dell’uomo perché la verità è che arte può essere qualsiasi cosa realizzata dopo un lungo processo di produzione e che ha assunto un valore a parole non descrivibile.
Certo, se pensiamo per esempio ai quadri o a qualsiasi prodotto artigianale realizzato a mano, un valore materiale lo si trova, ma se si vuole parlare di valore emotivo allora la situazione cambia, ed ecco che l’arte diventa soggettiva.

Arte può essere…
un vaso di ceramica realizzato nel negozio vicino casa;
il disegno di un bambino;
il film proiettato nelle sale dei cinema;
il suono della pioggia in una fredda giornata d’inverno.

Arte è tutto ciò che lascia un segno e che quando viene guardata si fa sentire pur stando in silenzio, sia che si tratti di qualcosa di concreto o di immateriale.

Parliamo di opere d’arte, tra quadri, collage e composizioni

Il motivo per cui i soggetti presi in considerazione in questo articolo sono opere d’arte conosciute è uno solo: sono opere che trasmettono emozioni.
Quindi, adesso, parliamo di come l’arte può diventare lo strumento di analisi delle emozioni.

L’arte di rattristare, Gli eremiti di Egon Schiele

Gli eremiti di Egon Schiele (olio su tela, 1912)

Circondati da un mondo vuoto, grigio e privo di alcunché, le due figure al centro del dipinto, Schiele e quello che probabilmente deve essere Klimt, si abbracciano con disperazione, avvolti dalla solitudine.
Sono persi, senza più gioia ad animarli, e immobili sembrano essere usciti direttamente dalla terra.
Hanno le teste chine, quasi fossero state piegate dalla pesantezza del loro animo, e le espressioni tristi e cariche di malinconia ne evidenziano il disturbato stato emotivo.

Alle spalle di Schiele, Klimt, con gli occhi chiusi, sembra voler dimenticare il suo dolore, o forse ricordarlo e comprenderlo, lasciando i suoi pensieri fluire sulla spalla dell’amico. Alla loro sinistra, in mezzo al terreno, una piccola rosa rossa si staglia sola, forse a ricordar loro che in mezzo alla voragine buia delle loro emozioni brilla ancora un briciolo di speranza. Seppur la rosa tenti di illuminare la scena, i fiori che decorano i capelli dei due uomini la appesantiscono maggiormente con i loro colori cupi e freddi.
Il quadro raffigura corpi ormai quasi senza vita che però ancora provano e sentono emozioni, una speranza che sembra vacillare, incerta se crollare o continuare ad insinuarsi in un mondo ormai vuoto. 

Quest’opera è in grado di descrivere solitudine, speranza evanescente, un mondo che sembra morto, disperazione e bisogno di condivisione.
Basta guardarla per sentirsi improvvisamente tristi perché anche la tristezza è una forma d’arte che sa parlare senza dire una parola: arte che sussurra.

https://it.wikipedia.org/wiki/Gli_eremiti_(Schiele)

L’arte di angosciare, Dead Mother di Egon Schiele

Dead Mother di Egon Schiele (olio su tela, 1910)

In quest’opera è raffigurata una madre dal viso scarno e coperto di rughe che ne evidenziano l’invecchiamento prematuro, ad indicare come l’angoscia le abbia deturpato non solo la mente ma anche l’aspetto esteriore. Gli occhi, seppur rivolti verso il piccolo, sembrano privi di vita ed il suo collo, piegato verso sinistra, le fa assumere una posizione innaturale.
Così come il suo volto, anche la mano visibile della donna è caratterizzata da toni grigio giallastri e, attraversata da rughe che le si arrampicano per le lunghe dita che senza forza sorreggono il suo fagotto.

Il bambino sembra ormai abbandonato a se stesso, avvolto dal guscio morto che è divenuta sua madre. Nonostante nel dipinto sia l’unico soggetto ad essere dipinto di arancione, simbolo di vita e vitalità, anche il piccolino è destinato ad esser segnato per il resto della sua vita, già avvolto da colori freddi e spenti.

Attorno a loro il nero dilaga e, come in molti altri lavori del pittore, è pura angoscia ciò che il quadro trasmette, oppressione, nonostante sia la vita la protagonista, in realtà appare più simile alla morte.
È un quadro denso di significato, che sembra appesantire al solo sguardo, ma è qui che sta la sua arte: arte che trasmette.

L’arte di immaginare, Deposizione degli uccelli e delle farfalle di Hans Arp

Deposizione degli uccelli e delle farfalle / Ritratto di Tristan Tzara di Hans Arp (rilievo in legno policromo. 1916-1917)
Fonte: https://www.edueda.net/index.php?title=File:Hans-arp-ritratto-di-tristan-tzara-1916-coll-privata5.jpg

Questo lavoro non fa vedere nulla. Ma forse l’opera in realtà mostra se stessi, e allora cosa si vede?

Il volto deforme è lo stesso volto che si guarda allo specchio. Lo si osserva, lo si analizza e poi non rimane altro che la consapevolezza distorta di quel che davvero è.
Non è solo rosa pelle, è anche coperto di grigio. Il grigio dell’umore, il grigio delle rughe, il grigio delle macchie, il grigio di tutto quel che non piace.
È forse luce quella che si rispecchia sull’occhio chiuso o forse aperto? È difforme, diffusa solo in alcune zone.
Quello dell’opera è un volto incerto che anche quando appare tale è comunque troppo astratto e troppo chiuso dentro linee storte.
Poi, però, gli occhi diventano il lontano ricordo di farfalle di cui tuttavia non hanno molto, se non l’ambigua forma ondulante delle ali che, forse chiuse forse aperte, posano su un masso stratificato.
Più che posare sembrano essersi abbandonate, riverse senza vita laddove hanno trovato rifugio. Sono morte? O sono solo così esauste da aver perso ogni forza per continuare a vivere?
Forse, a guardarle dall’alto, si sono lasciate andare molto tempo addietro, ormai sciolte su una pietra senza più alcuna speranza, come il viso che più non è viso, e tutto quel che ne rimane è un insieme di forme che, se osservate di sfuggita, perdono significato e tornano a essere nulla.

Questa è un’arte difficile da comprendere, astratta, da interpretare, eppure, sa rivelare cose che nessun altro può sapere. È arte che mostra.

L’arte di criticare, Gurk di Raoul Hausmann

Gurk di Raoul Hausmann (fotomontaggio, 1919)
Fonte: https://www.analisidellopera.it/gurk-raoul-hausmann/

Dove ci si perde se non in chiacchiere e parole?
Stracci di giornali simili per dimensione, ma non uguali, sono incollati uno vicino all’altro per poter formare quello che sembra essere un volto.
Parole affiancate da altre parole disegnano irregolarmente le labbra, il lungo naso e i fasci di capelli.
Il nero riempie le sopracciglia larghe e vicine tra loro.

Lettere che viaggiano per il viso arrampicandosi sulle guance e lungo la fronte mostrano quel che potrebbero essere pensieri.
Ci si ritrova ad osservare parole sussurrate, cantate, scritte e gridate, parole che si insinuano nella testa e a volte non escono più fuori.
L’uomo è formato da parole che permettono di formulare idee e pensieri su altre persone. A volte le si categorizza e a volte le si elogia.
Ma se allora l’uomo è fatto di parole quello raffigurato nell’opera è un uomo o è l’impressione che si ha dell’uomo? Beh, la risposta può essere una sola: gurk.

Descrive parole, chiacchiere, bisbigli e pettegolezzi di cui la società è pregna. È un’opera che vocifera, arte che parla.


L’arte non ha epoca. È l’emozione che dorme su guanciali d’eternità.

Antonio Aschiarolo

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