Oriens – Gli orsi non esistono

In questo nuovo articolo di Oriens parleremo di Gli orsi non esistono (Khers Nist), ultimo film del regista iraniano Jafar Panahi e vincitore del Gran Premio della Giuria alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. 

Restare e andarsene

Ne Gli orsi non esistono Panahi, come in altre sue opere, impersona se stesso. Impossibilitato a lasciare l’Iran, il regista è immobilizzato in un paesino al confine con la Turchia, da cui dirige, tramite videochiamate, la troupe del suo nuovo film: la storia di due innamorati che tentano di lasciare il proprio paese alla ricerca di migliori condizioni di vita. Un’opera meta-cinematografica dunque, al cui interno dialogano diverse soglie.

Una delle prima è quella tra l’immobilità del restare – Panahi, il suo esilio, la sua attuale prigionia – e il dinamismo dell’andarsene – i personaggi del suo film, il loro tentativo di espatriare, di slegarsi da ciò che conoscono e che è noto.

Ma attraversare questa soglia non è affatto semplice. Quando al Panahi – personaggio si presenta la possibilità di lasciare l’Iran per raggiungere la Turchia, egli è combattuto, titubante, se non addirittura terrorizzato. Non a caso, nella luminosità della notte decide di tornare indietro. Eppure, se il confine è proprio lì, calpestato dalle piante dei suoi piedi, perché gli è così complicato attraversarlo? Forse è l’attaccamento alla propria nazione, forse è la paura di andarsene, o ancora, forse è il bisogno viscerale di fare un cinema che sia così inestricabilmente legato alla sua patria.

Gli orsi non esistono – Panahi

Verità e finzione

Un’altra soglia costantemente in tensione è quella tra realtà e cinema, più precisamente quella tra verità e finzione.

Nella realtà del villaggio dove trova ospitalità Panahi dilaga la finzione. È tutto un ricorrersi di tradizioni, riti, superstizioni, e nonostante la loro arbitrarietà venga riconosciuta dai più, esse persistono tenacemente e ostinatamente nel tessuto sociale.
Nel film meta-cinematografico emerge una cruda verità: la difficoltà di ottenere documenti falsi, l’interminabile trattativa per organizzare viaggio-contatti-spostamenti ed il tutto grazie alla determinazione, a tratti sfiancante, di voler lasciare il proprio paese. Si tratta, infatti, di un paese costretto in una teocrazia dittatoriale, in cui qualsiasi individuo con opinioni divergenti dalla propaganda statale viene bollato come sovversivo e conseguentemente imprigionato, torturato ed esiliato.

Tuttavia, è come se per Panahi l’unica tortura davvero insopportabile non sia tanto quella fisica, quella che distrugge il corpo, squarciandolo e abbruttendolo, quanto la tortura della verità. Uno dei protagonisti, ad un certo punto, piangendo, ammette: “Prigione, tortura ed esilio erano meno gravi della mia bugia. Ma la mia bugia l’ha distrutta”.

Nulla è più distruttivo, per l’animo umano come per un’intera comunità, di ciò che annienta la verità stessa. 

Il cinema contro le superstizioni

Con Gli orsi non esistono Panahi muove una serie di critiche contro l’Iran.
Tra quelle più evidenti vi è la condanna contro l’incapacità di emanciparsi dalle superstizioni popolari: sia le superstizioni sulla tecnologia, ancora letta come un’entità manipolatrice e misteriosa che sfugge alla comprensione umana, sia quelle che tentano di frenare gli spiriti viaggiatori, gli animi curiosi, le menti scomode, ingabbiandole nella ristrettezza di credenze irrazionali. Il titolo “Gli orsi non esistono” è una sorta di monito, un campanello per risvegliare e riscuotere il pensiero critico e razionale di un paese da sempre attraversato da grandi contraddizioni.
Panahi cerca di combattere le superstizioni del villaggio non con la religione, velatamente accusata di esserne la principale incubatrice, ma con il cinema, in grado di testimoniare, rivelare, mantenere intatta nel tempo la realtà così com’è, con la sua lordura e le sue incoerenze. 

Dal punto di vista delle inquadrature, Panahi si trova spesso incorniciato da una serie di rettangoli potenzialmente infiniti. Questa scelta registica rimanda sia all’idea di costrizione a cui la sua condizione di personaggio nel film e di regista nella realtà è sottoposta, sia però ad un ipotetico “fuori”, un “esterno” a cui ambire ed aspirare quando ci si libera da tutte quelle conoscenze assorbite passivamente.

Panahi, l’arresto

Jafar Panahi è stato arrestato a luglio di quest’anno mentre manifestava per reclamare la liberazione di altri due colleghi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad. Già nel 2010 Panahi aveva subito una condanna a sei anni di carcere e a vent’anni di interdizione dalla realizzazione e scrittura di film, dal lasciare il paese e dall’esprimere liberamente il proprio pensiero, a causa di quella che la Repubblica Islamica definiva “propaganda contro il regime”.

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