Negli ultimi decenni, soprattutto con l’avvento della televisione, la comunicazione si è incrementalmente polarizzata. Occorrono vedute più ampie. In questo capitolo di Concime ho parlato del bisogno di mediazione insieme a chi ha fatto del teatro la propria vocazione: la docente di teatro classico Martina Treu e Bryan Doerries, direttore artistico della compagnia newyorkese Theater of War.
Attraverso le storie e i miti si attribuisce un senso all’esistenza. Quando ci raccontiamo, lo facciamo in forma narrativa. La Theater of War ha sviluppato la sua intera produzione su questo assunto, consapevole che le storie influiscono incredibilmente sulla psiche delle persone. Un racconto può guarire un soldato appena tornato dal fronte come anche un individuo che ha sofferto di abusi infantili. Durante la pandemia la compagnia, invece di chiudere, si è aperta maggiormente e ha scoperto un nuovo medium. Ha dato il via a una sperimentazione nata da una condizione di necessità.
La presenza fisica è insostituibile. Già la religione dionisiaca intuiva che, però, c’è qualcosa di metafisico che accade dentro di noi a prescindere dalla corporeità. La permanenza davanti allo schermo è stancante e tuttavia su Zoom si può verificare un atto sacro di comunione. È davvero uno stare fuori dal corpo in cui si interagisce contemporaneamente con persone da tutto il mondo. Qui la fatica lascia spazio all’entusiasmo.
Tecnologie antiche e moderne
La proposta della Theater of War è un discorso diretto, pluralistico e democratico che non risponde a governi, aziende, inserzionisti o istituzioni. Questo è oggi possibile in modalità mai sperimentate prima. Mettere in scena tragedie greche su una nuova piattaforma come Zoom fa riemergere le premesse del teatro classico. In edifici antichi come l’anfiteatro, con posti “da entrambe le parti”, lo scambio è bidirezionale: “io ti vedo e tu mi vedi”, perché ognuno riconosce le proprie lotte e difficoltà nelle storie inscenate.
Tanto i media di massa quanto le piattaforme di streaming rispondono a una modalità di produzione culturale monodirezionale, ovvero l’antitesi dell’anfiteatro. Tra il XX e il XXI secolo il ruolo del pubblico è stato ridimensionato. Oggi è nata la possibilità di un nuovo medium proprio per una necessità di connessione, anche spirituale e metafisica, nonostante le limitazioni che il quadro pandemico comporta. Non è teatro, televisione o social media. Include tutte queste forme di comunicazione e le supera, muovendosi nella reciprocità.
Nel V secolo gli Ateniesi hanno sviluppato una forma di narrazione bidirezionale per necessità. Questa esigenza era causata da decenni di guerra e da un’epidemia che aveva ucciso un terzo della popolazione. Ai giorni nostri un “classico” può raggiungere una portata che Sofocle non avrebbe mai immaginato. Si potrebbe pensare che aumentando i partecipanti, diminuisca l’intimità. Invece sapere che si partecipa allo stesso atto di condivisione aumenta la connessione emotiva, anche se non ci si può vedere.
Abbiamo scordato la motivazione per cui sono nati i racconti e dimenticato la loro potenza. Possiamo ora recuperare ciò che è andato perso per colpa del capitalismo, della mercificazione delle storie e della feticizzazione della sofferenza.
Demolire per ricostruire
Non c’è tempo da perdere. È una questione di vita o morte. Una storia può salvare una vita e convincere alcolisti e vittime di abusi a entrare in terapia. La posta in gioco cresce e con essa la necessità di raccontare le nostre storie. Il desiderio c’è e si deve agire velocemente per approfittare del processo di apertura in atto in tutto il mondo.
Il teatro è uno spazio fondamentaleper la società intera. Infatti gli atenesi continuavano a proporre le rappresentazioni anche in tempo di guerra. In ogni performance scorre un’empatia collettiva che scuote l’ambiente. Si tratta di un’energia che risiede in ciascuno di noi e può fluire anche attraverso il web.
Oggi il teatro è percepito come una merce, soprattutto negli Stati Uniti. È un bene di lusso, non una necessità o un servizio. Ci sono strutture di oppressione che escludono chi magari parteciperebbe con entusiasmo. Per entrare nella sala si deve passare oltre ai vetri antiproiettile, agli sportelli della biglietteria, allo scambio di denaro, alle maschere che ti dicono come ti devi comportare. A una forma di teatro così malata occorreva una pausa comunque: ora la pandemia l’ha imposta. I sistemi dello spettacolo devono essere distrutti e ricostruiti in una nuova forma per tornare a esercitare la loro vera funzione.
Non si può affrontare il dolore, lavorare o prendersi cura della propria famiglia senza avere un luogo in cui prendere coscienza della verità di quelle esperienze. Abbiamo bisogno di un teatro che sia mediazione e che aiuti a sintonizzarci con la nostra parte più profonda.
Mediazione del dolore
La polarizzazione è estrema. Urge una mediazione e la mitologia può essere d’aiuto. Le storie antiche interpongono una distanza tale per cui le persone non si sentono direttamente accusate. Quindi può avere luogo uno scambio tra individui che hanno delle idee completamente differenti.
È un discorso radicato nelle componenti emotive. L’elemento chiave della tragedia greca è la sofferenza e la sua rappresentazione in scena. Innestando la conversazione etica a una rappresentazione del dolore, si supera la teoria. Gli spettacoli non sono più semplicemente i miti, ma una mediazione del dolore. In questo modo persone che in qualsiasi altra situazione ripiegherebbero sulle rispettive posizioni, all’improvviso si aprono e dialogano.
Un anfiteatro digitale
Migliaia di persone concentrano simultaneamente le loro energie su racconti antichi, espandendo la narrazione con le loro storie di vita. Si può entrare nello schermo e partecipare alla rappresentazione inviando dei commenti. La sperimentazione su Zoom esprime l’esatta essenza del teatro anche se preserva pochi degli elementi che tradizionalmente gli si attribuisce.
Ciò non significa che il futuro del teatro si svilupperà solamente online. Sta però prendendo forma un anfiteatro digitale dalle incredibili possibilità, uno spazio che pare abitato da un senso profondo (télos). La tecnologia rende visibile il dolore, permettendo di attribuirgli un nome. Inoltre, i nuovi media moltiplicano le possibilità di incontro. È la forza del mondo che si riunisce e rende comune la sofferenza.
Il trauma genera solitudine. Porta al pensiero di essere i soli a provare quella sensazione. Nell’anfiteatro le lotte, il disagio e le difficoltà che ognuno ha sono condivise. Ci guardiamo negli occhi.