3 Febbraio 2021. L’annuncio delle nomination ai Golden Globe di quest’anno ha sancito non solo l’inizio della tanto attesa award season, ma un vero e proprio desiderio di normalità che l’industria cinematografica ha per necessità, per un intero anno, dovuto abbandonare.
Award season 2020
Il 2020, per il cinema, sarà ricordato come l’anno dei rinvii. Da Dune di Denis Villeneuve a The French Dispatch di Wes Anderson, dal Festival di Cannes ad (addirittura) la possibilità di cancellare in toto la stagione dei premi. Possibilità, per fortuna, scampata. Perché quest’anno, seppur a fronte di sale cinematografiche quasi ininterrottamente chiuse, le pellicole che meritano di essere passate in rassegna sono tantissime.
Le nomination ai Golden Globe hanno permesso una prima scrematura, che verrà certamente ripresa agli Oscar, dove però le sorprese potrebbero non tardare ad arrivare. É però la categoria “best director” che ha destato maggior scalpore quest’anno, decretando anche un (anacronistico) primato: per la prima volta più di una donna è stata nominata come miglior regista ai Golden Globe. Anzi, questa volta sono tre. Registe il cui valore artistico non deve essere eclissato da una spiacevole statistica che, ancora una volta, sottolinea la disuguaglianza che vige nell’industria cinematografica, anche contemporanea.
I lavori di queste tre, immense, registe sembrano esseri nati per diventare degli instant cult, ricchi di dialoghi brillanti, interpretazioni che lasciano senza fiato e un’immensa abilità di pensare fuori dagli schemi. Segnatevi i loro nomi: Emerald Fennell, Chloé Zhao e Regina King.
Promising Young Woman
La vendetta ha un sapore dolce. Lo sa bene Cassandra, “Cassie” (una favolosa Carey Mulligan, nominata ai Golden Globe per il ruolo), protagonista di Promising Young Woman, spietata e feroce sotto una parrucca arcobaleno e un sorriso angelico. Nel suo taccuino rosa segna diligentemente le sue “vittime”: quei “bravi ragazzi”, i cosiddetti uomini promettenti che nei locali notturni si trasformano e, da innocui cavalieri, prendono le sembianze di inquietanti belve. Cassie, però, conosce il loro gioco e glielo ritorce contro. Finge di essere quella dama indifesa, la preda perfetta, per poi attaccarli con una spaventosa lucidità.
Emerald Fennell, regista, sceneggiatrice e attrice (la abbiamo vista nell’ultima stagione di The Crown, come Camilla Shand), esordisce con un film spietato e affascinante come la sua protagonista. Fennell mette sin da subito le carte in tavola, creando una pellicola sicuramente polarizzante ma angosciatamente realistica nella rappresentazione di un trauma che prende forma in un cocente desiderio di vendetta femminile. Sotto la patinata colonna sonora (tra cui spicca anche Stars are blind di Paris Hilton) e la fotografia dai colori pastello, esplode la rabbia e la frustrazione che nasce da una storia sentita e risentita, ma che necessita costantemente di venir raccontata. Un film magnetico come la stessa Carey Mulligan, il perfetto angelo della vendetta sognato da Emerald Fennell.
Nomadland
Accade, non molto spesso, che il cinema si apra a mostrare una realtà lontana da quella a cui siamo abituati. Potremmo parlare del “cinema degli ultimi”, che si allontanano, fisicamente e mentalmente dalla civiltà per ritrovare se stessi. Da questa premessa prende forma il piccolo capolavoro di Chloé Zhao, regista di origine cinese che ha incantato il mondo intero con il suo Nomadland. La regista percorre le strade d’America per regalare un viaggio senza meta, un’esperienza sensoriale fortissima che vede protagonista la natura nelle sue infinite declinazioni. Un tramonto, delle rondini, un ruscello, il mondo si anima sotto gli occhi incantati di quei nomadi, persone che hanno ormai superato la mezza età e vivono di nulla, ma che non perdono mai quello stupore infantile nel loro sguardo.
Una di queste è Fern (Frances McDormand), che si immerge totalmente in questo mondo, e regala un’interpretazione che appare più vera e pura che mai. Accompagnata dalle meravigliose note di Ludovico Einaudi, che firma la colonna sonora, Fern viaggia nel tempo e nello spazio, tra ossa di dinosauri e praterie americane. Una terra di nomadi dove gli addii sono necessari, con la possibilità di rincontrarsi sulla strada. Zhao indugia sull’infinita bellezza della natura, e sul volto e sulla corpo di quei nomadi che vedono questo mondo come una nuova, possibile, rinascita.
One Night in Miami
É il 2019 quando Regina King, splendida, avvolta in un abito bianco, sale sul palco del Dolby Theatre per ricevere il premio Oscar come migliore attrice non protagonista per Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins. Una vittoria tutto fuorché inaspettata, che le garantisce una carriera in ascesa. Regina King è stata però in grado di dimostrare che le sue grandi doti spaziano dalla recitazione alla regia. Ciò diventa evidente nel suo vero e proprio esordio, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia (e ora disponibile su Amazon prime): One night in Miami.
Una notte a Miami, con quattro accompagnatori d’eccezione: da Cassius Clay (pronto a diventare Muhammad Alì) a Malcolm X, da Sam Cooke a Jim Brown. Una serata tra amici (e che amici!), spogliati da quell’alone mistico, al limite del divino, che anche solo i loro nomi portano inevitabilmente con sé. Regina King, regale non solo nel nome ma anche nella messa in scena, crea una pellicola dal forte stampo teatrale, giustamente caricata nei dialoghi dai quali scaturiscono le diverse anime dei personaggi sullo schermo. Dallo sport alla religione, dalla libertà al coraggio, Clay e soci discutono, ridono, cantano insieme, in questa pellicola corale calda e coinvolgente, che si muove tra finzione e realtà. Tra possibilità e desiderio. Uno splendido omaggio a questi uomini, merito anche di immense interpretazioni tra cui spicca quella di Leslie Odom Jr. (Sam Cooke).