Durante il primo lockdown a Milano si sentivano solo le ambulanze, la città era deserta. “Un silenzio di mezzanotte in pieno giorno” si dice in Verso Tebe, spettacolo teatrale in cui incombe la peste. In altre regioni, invece, le persone hanno vissuto la pandemia come un fastidio.
Le riflessioni che ho scambiato con Elio De Capitani, direttore del teatro Elfo Puccini, e Margareth Londo, scenografa e blogger, provengono da persone che il silenzio assordante di quella Milano lo hanno sperimentato di persona.
Non esistono caratteri universali della pandemia perché ognuno l’ha percepita in maniera diversa. A non dimenticare questa esperienza saranno coloro che l’hanno vissuta come tragedia, avendo dunque l’esatta misura della portata degli eventi. C’è chi ha affrontato il lutto e chi è stato colpito a livello economico, vedendo la morte della speranza e del proprio obiettivo di vita.
Ciò che invece ci accomuna è una sensazione di smarrimento collettiva e individuale. Le persone non leggono, non ascoltano. Si cerca continuamente un perché, non con lo scopo di interpellare e comprendere i cambiamenti, ma per poter continuare a vivere come se niente fosse e giustificare questo atteggiamento.
La forza della collettività
Il nostro paese ha sottratto il dominio alla monarchia per diventare una realtà di cittadini con una Costituzione. Ci sono state conquiste che hanno prodotto l’accelerazione del benessere e lo sviluppo della ricerca scientifica e dell’economia di mercato. Risultati che poi sono stati dimenticati, con il riconoscimento del mercato come la forza naturale risolutrice di ogni problema. Un frutto immediato della crisi pandemica si è visto nella rilevanza degli interventi esterni al mercato da parte di stati e sovrastati.
Il mercato da solo non basta, è necessario adottare un’ottica che comprenda l’intera collettività. Le civiltà idrauliche, per esempio, sono nate per difendersi dalle catastrofi e trasformarle in opportunità. Nessuna forza individuale poteva infatti dominare la potenza dei grandi fiumi.
Il teatro Elfo Puccini è una realtà che ha scelto la via del collettivo, diventando un’impresa sociale. Questo assetto organizzativo trova origine nella reazione alla pandemia sociale di cui le giovani generazioni sono innocentemente vittime, quella per cui sono stati liquidati tutti i problemi sociali al livello individuale.
Persi nella nebbia
Sono venute a galla delle verità che cercavamo di non guardare. Ogni mezzo è stato utile perché la téchne potesse assicurare la continua produzione e l’accelerazione dei tempi. L’uomo si è perso. Non sa più chi è, rincorre qualcosa senza sapere dove sta andando. La ricerca interiore è sostituita da quella che guarda ai soldi e al riconoscimento, non accorgendosi della rispettabilità che ognuno ha solo per il fatto di esistere. È fondamentale distinguere ciò che è l’uomo da quello che la società ci chiede di essere. Da una parte c’è una sensibilità che abbiamo smarrito e dall’altra delle richieste che non possono essere soddisfatte.
Quando perdiamo il valore di chi siamo, la storia si svuota e si riduce a numeri e fatti da imparare a memoria. Così non c’è riflessione sul significato delle parole. Non ci si interroga sul senso che l’autore ha attribuito loro e su come queste acquisiscano valore nella contemporaneità.
Si è ossessionati dal terrore dell’errore ed è proprio questo il più grande inganno. Sbagliare non significa essere incapaci, ma imparare la lezione per potersi migliorare. Evitare di prendere una decisione per la paura delle conseguenze è comunque una scelta. È un gatto che non solo si morde la coda, ma non è nemmeno capace di vederla.
Ricordare lo strappo alla normalità
A differenza di processi come il riscaldamento globale, la pandemia ha agito in maniera immediata, facendo da lente di ingrandimento sulle problematiche preesistenti. Il periodo che stiamo vivendo è un’opportunità per dimostrare che il ciclo dell’ordinarietà può essere interrotto e che può accadere qualcosa di straordinario.
Possiamo fermarci per un momento, sospendere la corsa quotidiana e ascoltare ciò a cui di solito non faremmo caso. Si può cogliere la preziosità della pandemia quando qualcosa che viene da fuori risuona con la nostra anima e si riesce a percepirne l’emozione. In molti rimangono però intrappolati in quella corsa inarrestabile.
C’è il timore che nemmeno la pandemia abbia inciso a sufficienza su ciò che oggi struttura la convivenza civile. Il meccanismo che ha accelerato la ricerca scientifica è infatti rientrato velocemente nella logica “normale” del mercato. Si sta manifestando il desiderio di lasciarsi la pandemia alle spalle e la volontà di tornare a “com’era prima”, senza cambiare nulla.
È fondamentale meditare come far ricordare questo momento, affinché duri nella memoria. Se prevarrà la tendenza a dimenticare non ci sarà nessuna terapia. Il vaccino arriverà, ma l’indifferenza non sarà sanata.