Una camera immersa nella penombra. Un ragazzo dai capelli biondo cenere che si muove nervosamente al suo interno. Un dettaglio sulla parete: la locandina di uno dei film più discussi della storia del cinema, Ultimo Tango a Parigi del maestro Bernardo Bertolucci.
Un film celato, occultato al pubblico alla sua uscita, nel 1972, perché considerato una pura e semplice glorificazione dello scandalo. Guadagnino, al contrario, lo mostra apertamente: si ritorna spesso sul quel dettaglio alla parete. Il richiamo non è solamente visibile, tanto più formale. La liberazione sessuale, che porta alla scoperta di sé e dell’altro, accolto nella sua interezza fisica e spirituale, sembra essere uno dei temi chiave che muove il cinema di Luca Guadagnino.
Il titolo della serie, da cui è tratta l’immagine appena descritta, è We Are Who We Are, diretta e sceneggiata dallo stesso Guadagnino e prodotta da HBO. Siamo ciò che siamo, un grido liberatorio che riecheggia per tutte le otto puntate di questa miniserie, che a volte, però, pare inascoltato. Why are you so complicated? chiede Caitilin (Jordan Kristine Seamón), protagonista morale della storia, a Fraser (Jack Dylan Grazer), il ragazzo dai capelli biondo cenere appassionato al cinema di Bertolucci. Se per Guadagnino il concetto di trama è alieno, al cinema, la sua attenzione si posa sull’attenta e concreta introspezione dei personaggi, scevri da ogni possibile cliché del caso. Complicati ed enigmatici, due aggettivi che dipingono quella fase adolescenziale, prossima all’età adulta, che Guadagnino sembra tanto desideroso di rappresentare.
L’esigenza di raccontare un sentimento
Prima di We Are Who We Are è stata la volta di Call Me By Your Name. Una pellicola del 2017, sin da subito entrata nell’olimpo della cinematografia contemporanea. E non solo per le lodi ricevute oltreoceano, che hanno portato il film a diverse candidature all’Oscar (e alla vittoria per la miglior sceneggiatura non originale di James Ivory), ma soprattutto per aver dato nuovo lustro, anche all’estero, al cinema nostrano. Guadagnino, visto il plauso di critica e pubblico, da regista pressoché di nicchia è stato ribattezzato unanimemente il creativo italiano.
Il cinema di Guadagnino non nasce però dal desiderio di ottenere consensi in Italia e all’estero: deriva da un’esigenza, viscerale e profonda, di tradurre in immagini la propria visione del mondo. Una visione che esercita, in chi osserva, un’intensa attrazione nei confronti dei personaggi che prendono vita sullo schermo. Come, ad esempio, accade in Chiamami col tuo nome, ambientato tra le campagne cremasche, dove si consuma l’amore totalizzante tra Elio e Oliver. Guadagnino dipinge un desiderio universale, che colpisce due esseri umani, a prescindere dal sesso, che vivono insieme un’esperienza assoluta. La conoscenza reciproca, del corpo e della mente dell’altro, diventa il punto di partenza e di arrivo.
Elio e Oliver sembrano conoscersi ancor prima di toccarsi per la prima volta. Il loro destino, la loro unione, appaiono già scritti. Non sembrano esserci ostacoli sul loro cammino, se non la consapevolezza distruttiva che un amore simile sia un idillio destinato a svanire non appena entri in contatto con la realtà. La splendida casa estiva, appartenente alla famiglia di Elio, sembra sospesa nel tempo, il luogo ideale per dar vita a un sentimento incontrollabile (e che non vuole essere controllato) che coglie alla sprovvista i due protagonisti. Sei in grado di essere onesto con te stesso e con i tuoi sentimenti?, sembra chiedersi Guadagnino. Quesito che trova risposta nella viscerale storia d’amore che nasce tra i protagonisti.
L’arte del remake
Per Guadagnino il cinema è la visione e l’immensa abilità del regista di creare immagini vivide e intense lo denota. Se per lui fare cinema è trasporre sullo schermo la propria visione della realtà, non è un caso che il regista parta da mondi preesistenti. Per un artista denominato creativo italiano, la vena immaginifica risulta una delle sue tante doti, che si ripresenta nel momento in cui si accinge nell’arte di girare un remake.
Non manca in lui, tra le qualità già sopra elencate, una buona dose di coraggio. Perché ci vuole una certa audacia nell’andare a toccare alcuni dei più grandi classici del cinema internazionale e non. L’ardimento si sprigiona, però, a partire da una pura e sentita passione per il cinema e per il lavoro di grandi maestri del genere, per i quali Guadagnino nutre una vera e propria forma di idolatria. Proposito che è diventato realtà nel 2018, quando al Festival del Cinema di Venezia, ha presentato la sua versione del Suspiria del maestro Dario Argento, del quale si sente profondo debitore.
Più che di un remake, però, si tratta ancora una volta di una propria visione della storia, adattandola a quelle tonalità emotive tipiche del proprio cinema, che nel tempo ha fatto sue. Dai forti tratti grotteschi, nella pellicola si riflette quella fortissima vena estetica già ben percepibile nei film precedenti del regista, che in Suspiria assume la sua forma più concreta. Dalle tinte pittoriche, però, la versione di Guadagnino non presenta solo un intreccio e un finale differenti da quella di Argento. Il regista adotta una prospettiva ben più carnale e mistica delle protagoniste rappresentate sullo schermo, specie per la Susy interpretata da Dakota Johnson.
Dirigere gli attori
La filmografia di Guadagnino è costellata da attori, italiani e internazionali che, nelle mani abili del regista, subiscono una piena trasformazione, penetrando nella pelle dei personaggi da loro interpretati. Da un lato vi sono interpreti che ritornano ciclicamente nella cinematografia del regista, i quali sembrano condividere con lui la stessa concezione dell’arte. Tra questi sicuramente risalta la splendida Tilda Swinton, attrice cardine del cinema di Guadagnino, nonché sua musa artistica e spirituale.
Protagonista indiscussa del remake di Suspiria, dove interpreta ben tre personaggi, nei quali a tratti il volto dell’attrice appare irriconoscibile, Tilda Swinton aveva collaborato in passato con Guadagnino in A Bigger Splash (anche in questo caso remake, de La Piscine del francese Jacques Deray) e in Io sono l’amore. Un’interprete poliedrica e mimetica, sulla linea dello stesso Guadagnino.
Ciononostante, la destrezza del regista si mostra anche nella direzione di attori più giovani. Coadiuvati da Guadagnino, non appare a loro difficile emergere, regalando spesso delle interpretazioni introspettive e intense che valgono spesso il plauso di critica e pubblico. Ne è un esempio ormai universalmente celebre l’interpretazione di Timothée Chalamet in Call me by your name, in grado di mostrare tutte le sfumature di un personaggio complesso e delicato come Elio.
Più recentemente, Gudagnino ha deciso di affidare la parte del protagonista di We Are Who We Are a Jack Dylan Grazer. L’attore diciassettenne si spoglia da quei ruoli ben più commerciali a lui cuciti addosso per dar vita al tormentato e insicuro Fraser. Un abito che sembra in grado di indossare al meglio. É infatti protagonista di un’opera realizzata per coloro che vogliono sentire sulla loro pelle l’amore, la confusione, l’irrequietezza, a detta di Guadagnino. Per coloro che vogliono assorbire i personaggi sullo schermo per sentirsi rappresentati da essi. Perché, ancora una volta, è l’emozione che conta. Solo il sentimento è in grado di dare colore, suono e movimento. Tutto il resto è silenzio.