Il fascino delle storie di paura è innegabile. Sin da bambini, il desiderio di venire terrorizzati era allettante e, allo stesso tempo, ripugnante. É proprio questo dualismo a generare l’essenza dell’orrore, che tanto cerchiamo di ritrovare nel cinema.
Questo è, infatti, il luogo per eccellenza in grado di trasformare in immagini le nostre paure più recondite o superficiali. Capace, in alcune circostanze, di esorcizzarle. Ricordandoci però come, per superare la paura, sia prima necessario affrontarla.
Buona parte del cinema horror contemporaneo, però, preferisce planare sulla superficie delle cose. Non vi è il desiderio e, soprattutto, la passione, di indagare a fondo di uno dei generi più affascinanti e introspettivi del cinema. Dunque, in questo mondo dove sembra più semplice trovare pietre che diamanti grezzi, brilla il lavoro di autori (titolo che molti registi del genere non sembrano meritare) come James Wan, Jennifer Kent, Ari Aster, Robert Eggers. Registi che hanno rinvigorito il genere, animati da una sincera adorazione nei confronti della cultura horror, e che riescono a trasporre al meglio sullo schermo. In grado di spaventare non solo con tecniche che animano una paura chimica (si veda alla voce jump scare) ma, al contempo, abili ad arrivare al cuore dolente dell’uomo, colpendolo dove risiede quella parte di anima più fragile e indifesa.
Un sogno che sembra essere diventato proposito anche per il regista americano Mike Flanagan, uno dei nomi più fertili e intriganti del cinema horror odierno, la cui visione registica scava ben più in profondità del semplice desiderio di spaventare.
Il Re come ispirazione
Il lavoro di Mike Flanagan è stato spesso descritto come sofisticato. Un aggettivo alquanto ambiguo, se associato al genere horror. Eppure, sembra essere la chiave per comprendere al meglio la poetica del regista. Il genere horror sembra essere quello dove lo sguardo assume un ruolo centrale. Ciò che scelgo di mostrare o di celare rappresenta, in sintesi, il cuore di un’intera pellicola. La tensione, che deve essere sempre tangibile e concreta, risulta un’arma centrale per dare forma alla paura. Il cinema di Flanagan si nasconde nei dettagli, con un’evidente e voluto riferimento al padre del thriller, Alfred Hitchcock. Dettagli con i quali costruisce i personaggi che diventano il fulcro su cui si fonda l’intera storia. Senza la loro caratterizzazione e loro evoluzione, che nasce da una profonda e attenta analisi introspettiva, il film non esisterebbe.
Tale elemento sembra avvicinarlo al re per antonomasia del genere, cui Flanagan sembra essere profondo debitore: Stephen King. L’orrore nasce solo quando vi è empatia nei confronti dei personaggi plasmati dalla mente dello stesso autore, in grado di porre l’uomo e tutte le sue debolezze al centro della narrazione. La storia, per King e per Flanagan, è dunque una storia umana, dove i sentimenti come l’amore, l’amicizia e la perdita nascono come sfumatura della paura stessa.
Proprio per questa ragione, nel 2017, Flanagan si arma di coraggio e prova a trasporre una delle opere psicologicamente più complesse del Maestro, Gerald’s game, scegliendo come protagonista un’attrice che ritornerà spesso nella sua filmografia, la splendida Carla Gugino. Una storia dove la paura nasce dall’impossibilità di movimento della protagonista che la porta ad affrontare il suo passato e i suoi demoni interiori. Ciò a riprova del fatto che i mostri più spaventosi nascono dall’incapacità di fronteggiare i traumi che siamo stati costretti a vivere. E, a volte, assumono le sembianze e il volto di un padre, un marito, una moglie, una madre. Un passato che vorremmo dimenticare, ma che viene sempre, inevitabilmente, a galla.
Storie di fantasmi
Da Shirley Jackson a Henry James. Da L’incubo di Hill House a Il giro di vite. Mike Flanagan attinge a piene mani da alcune delle storie e dei romanzi più inquietanti e amati del panorama letterario horror. Partendo da una loro rielaborazione, con una lettura personale e acuta, ma anche fedele all’anima dell’opera stessa, il regista dà vita a quella che lui stesso definirà la haunting anthology. Parafrasando, l’antologia del terrore.
Prodotta e distribuita da Netflix, The Haunting of Hill House apre questo dittico, destinato a espandersi gradualmente nel tempo, dato l’immenso successo di critica e pubblico. Si tratta di una miniserie composta da dieci episodi che vede protagonista la famiglia Crain, destinata a venir spezzata dal vero e proprio incubo che vivranno nella magione di Hill House. Ancora una volta, Flanagan dipinge personaggi intensi e umani nelle loro debolezze ed errori, costretti ad affrontare un passato dal quale il padre (Timothy Hutton), ha sempre cercato di proteggerli. La serie si muove tra infanzia e presente, e mostra l’evoluzione del rapporto tra i fratelli Crain e come il loro legame si sia con il tempo lacerato.
Conosciamo Steve, che affronta il lutto famigliare e un passato burrascoso e incomprensibile nascondendo i suoi fantasmi interiori nella scrittura. Shirley, il cui lavoro la costringe sempre a trovarsi faccia a faccia con la morte. Theo, una psicologa infantile, che cela la sua rabbia dietro una facciata di apparente freddezza e sfacciataggine. E i gemelli Nell e Luke, il cui futuro appare sempre in bilico tra presente e passato. Per loro, scrollarsi di dosso i traumi e il dolore dell’infanzia sembra essere un’impresa irrealizzabile.
Da Hill House a Bly Manor
I fantasmi sono un’espressione delle ferite emotive che ci portiamo dietro. Vi è un’intrinseca connessione tra le storie d’amore e le storie di paura, ed è probabilmente da questo concetto che deriva il loro irresistibile fascino. Flanagan crea storie dove la linea tra vita e morte è quasi inesistente, e gli spiriti che popolano le storie trasposte dal regista assumono una nuova veste. I fantasmi prendono la forma delle nostre colpe, dei nostri segreti, dei nostri più profondi rimpianti. Ma la paura che nasce in noi nel momento in cui lo scontro diventa inevitabile, nasconde anche una buona dose di desiderio.
L’orrore diventa catarsi nel momento in cui affrontiamo la forma più oscura dell’esperienza umana, che si cela al di fuori o dentro di noi. Esattamente come accade dapprima ai protagonisti di Hill house e, successivamente, a quelli di The Haunting of Bly Manor, la seconda stagione della serie antologica ispirata al racconto Il giro di vite di Henry James. Questa volta, i legami che nascono tra i protagonisti non hanno radici famigliari, ma non per questo risultano essere meno saldi e potenti. Non mancano i fantasmi, gli spiriti nascosti tra le pareti della splendida villa di Bly, incapaci di abbandonare il luogo in cui sono morti. La causa si trova in una terribile maledizione lanciata da un’anima sofferente e furiosa che ha trasformato la sua rabbia in vendetta.
La poetica di Flanagan
Oggi Mike Flanagan è uno dei registi del genere più apprezzati e sperimentali. Pochi come lui sembrano in grado di comprendere e riadattare la letteratura di Stephen King senza perdere quell’alone disturbante, ma ammaliante che solo il re dell’horror sembra capace di trasporre su pagina. King ha infatti desiderato con fervore che fosse lo stesso Flanagan a dirigere il seguito di uno dei suoi romanzi più famosi, Shining: Doctor Sleep. Compito che l’ha portato inesorabilmente a scontrarsi con l’opera del Maestro Stanley Kubrick, considerata unanimemente uno dei capolavori del cinema. Seppur vi sia qualcuno che contesterebbe questa dichiarazioni, e altri non è che lo stesso Stephen King.
Questa volta, però, lo scrittore si è dichiarato soddisfatto dal lavoro di Flanagan, che è stato in grado di trasporre fedelmente il romanzo sullo schermo, senza però perdere una propria visione pittoresca e personale dell’opera di riferimento. Impresa, già ben più che ardua.
Dunque, seppur il punto di partenza si origini sempre da un desiderio, misto a passione, di adattare sullo schermo romanzi del terrore, la componente letteraria assume sempre un ruolo di contorno nel lavoro di Flanagan. Il cuore delle opere del regista si dipana in una visione poetica dove i temi chiave che tende a riproporre si muovono tra la famiglia e l’amore, la perdita e l’amicizia. A riprova del fatto che il genere horror affonda le sue radici in un profondo desiderio di empatia. E nel desiderio di sentirsi rappresentati da quelle parole, da quelle immagini, in grado non solo di inquietarci, ma anche rassicurarci.