Per Sigmund Freud la mente è come un iceberg, galleggia con un settimo della sua massa al di sopra dell’acqua. L’analogia ci permette di comprendere piuttosto intuitivamente che ciò che sta al di sopra della superficie è quello che potremmo definire razionalità. Questa, in una società evoluta e civilizzata, è la componente che mostriamo al mondo, e ci permette di adeguarci al meglio alle regole che esso impone. Cosa si cela, invece, al di sotto della logica?
L’inconscio, direbbe Freud, venendoci ancora una volta in aiuto. L’irrazionalità, l’istinto, il subliminale. L’impulso cieco e incontrollabile, ma controllato e guidato da quel settimo che galleggia al di sopra della superficie, a cui Charlie Kaufman non sembra particolarmente interessato.
Lo sceneggiatore e regista americano è tra i pochi che sembrano in grado di comprendere la mente umana e il meccanismo che la anima. Inevitabilmente, di fronte a una pellicola da lui firmata, siamo portati a chiederci quando e come Kaufman sia entrato nella nostra mente. Quanto, inoltre, abbia scavato nell’esperienza umana per creare opere in grado di portare a una riflessione sul pensiero stesso e la sua evoluzione.
La scrittura come introspezione
L’amore per la scrittura sembra essere la matrice chiave del cinema di Charlie Kaufman. Dopotutto, è stata proprio una sceneggiatura da lui scritta e ideata, Essere John Malkovich a fargli guadagnare il premio Oscar per la miglior sceneggiatura nel 2005. Il regista Spike Jonze era stato, infatti, uno dei pochi a credere in lui e nella sua ineguagliabile creatività artistica. La proposta di Kaufman era dopotutto alquanto inusuale per gli studios hollywoodiani: un burattinaio (John Cusack) scopre un tunnel all’interno del suo ufficio che lo conduce nella mente e nel corpo del celebre attore John Malkovich. Un soggetto che sembra fare dell’inventiva e dell’ironia il suo scopo, portando però a una profonda riflessione sul tema della fama e dell’identità.
In questo sta la doppia anima del cinema di Charlie Kaufman. Innanzitutto, un’evidente devozione per i principi tipici del teatro dell’assurdo, con Beckett e Ionesco come guide supreme del processo creativo, senza però dimenticarsi di esplorare l’abisso della coscienza umana, in tutte le sue falle e contraddizioni. Inoltre, indaga anche quei disturbi che rendono gli uomini cagionevoli e fragili, ma dotati di una sensibilità che solo l’artista possiede, inteso come colui che dedica tutta la sua vita all’amore per l’arte.
Con Synecdoche, New York, opera prima come regista, Kaufman sembra prefiggersi questo obiettivo. Caden Cotart (Philip Seymour Hoffman) è un uomo mediocre e decadente, costretto ad affrontare un mondo incomprensibile e tetro che tenta in tutti i modi di controllare. Essendo un regista teatrale, decide di dar vita a uno spettacolo in grado di mettere veramente in scena l’uomo e tutte le sue contraddizioni. Crea un’opera colossale e incontrollabile, alla quale non riesce mai a porre fine, che gli permette, però, di conoscere veramente se stesso e l’umanità che lo circonda. Questa gli consente anche di dar vita a una lotta contro la sua doppia natura: un sentimento che lo spinge verso la morte, allietato da una sensibilità artistica che ritrova nella sua devozione nei confronti dell’arte del teatro. Potrebbe essere che Caden sia una trasposizione dello spirito dello stesso Kaufman?
Cinema e teatro
“Plays are alive and movies are dead”. Parafrasando, il teatro è vivo e il cinema è morto. Charlie Kaufman è noto per spingersi oltre nelle sue sceneggiature, proponendo dei soggetti eccentrici e a dir poco al di fuori dell’ordinario. Questi nascono da una considerazione alquanto intima e personale dell’arte cinematografica. Il suo approccio è infatti fortemente di stampo teatrale, sebbene anche da questo punto di vista il regista non si limita a ispirarsi ai grandi classici universalmente conosciuti.
L’unione tra il teatro dell’assurdo e l’esistenzialismo sembrano essere i due cardini su cui il cinema di Kaufman si muove. Appare inevitabile il confronto tra la scrittura del regista e quella di grandi intellettuali quali Albert Camus o Jean-Paul Sartre. I personaggi animati dalla mente di Kaufman sembrano mossi da quella nausea di vivere tipica del protagonista di una delle opere più famose e conosciute di Sartre. Dunque, il cinema è davvero morto? L’unica linfa di vita permane solo nel teatro? Non è questo il concetto su cui si basa la frase tanto controversa pronunciata dal regista.
Il cinema di Charlie Kaufman può essere tradotto come un’esperienza che si estende al di là della visione stessa. É un cinema mentale e introspettivo, che porta a continui dubbi e risposte su se stessi e sul mondo che ci circonda. Per comprenderlo nel profondo non bisogna solo viverlo, ma riviverlo continuamente. Come il teatro. Ogni rappresentazione sarà sempre diversa dalla precedente, impossibile creare delle copie, specchio l’una dell’altra.
Kaufman crea un cinema dove l’esperienza si evolve con lo spettatore stesso. La struttura non muta, ma ogni minimo e infinitesimale dettaglio diventa cruciale per trasmettere un messaggio, che lo spettatore è in grado di cogliere solo se vissuto sulla propria pelle. Quindi il film si evolve, invecchia con gli anni, divenendo un soggetto vivo e mutevole esattamente come colui che lo osserva.
L’anomalia
L’uomo e le sue fragilità, questo sembra catturare l’interesse del regista. Con ironia grottesca ma anche fortissima sensibilità, il regista dipinge vite di uomini e donne sull’orlo di un precipizio. E noi, inevitabilmente, percepiamo sulla nostra pelle il peso morale che ogni personaggio è costretto a vivere giorno dopo giorno. Ciò accade al protagonista di Anomalisa (2015), opera sperimentale che nasce da una commedia teatrale scritta dallo stesso regista. David Thewlis e Jennifer Jason Leigh prestano anima e voce per creare un film in stop motion che si è guadagnato una candidatura come miglior film d’animazione.
Michael (Thewlis) soffre della sindrome di Fregoli, che lo porta a confondere continuamente la voce e i volti di chiunque incontri sulla sua strada. L’anomalia prende il nome di Lisa, una donna apparentemente ordinaria, nella quale Michael si perde completamente, fino ad arrivare a considerarla la sua unica speranza, l’unica forma possibile di felicità. Tuttavia essa è destinata, ancora una volta, al fallimento. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato in me, è la triste verità che Michael è costretto ad affrontare, prendendo atto della sua fallibilità. Ma è lui l’errore o il mondo che lo circonda, sembra chiedersi il regista, senza fornire alcuna risposta. Siamo noi spettatori, con le nostre esperienze passate e le nostre considerazioni sulla realtà a dover districare questo nodo.
Il sogno come sostanza
Il modo in cui percepiamo il mondo e decidiamo di vivere in esso è una scelta, che si sviluppa a partire dalle nostre idee e, soprattutto, dai nostri sogni. Il mondo onirico sembra sempre animato da un caos calmo, dentro cui siamo destinati a perderci. Al suo interno, però, l’inconscio fuoriesce con tutta la sua forza incontrollabile, contro cui non possiamo e, forse, non vogliamo, armarci. Siamo destinati a soccombere sotto questo fiume in piena.
La forza del cinema di Charlie Kaufman sta nel tradurre in immagini travolgenti, a tratti violente, quello che la mente umana ha sempre cercato di celare. Il subconscio, nascosto al di sotto della superficie, diventa vivo e concreto, dando vita a un film mentale che trasforma in materia la sostanza dei sogni.
Questo accade nell’ultima pellicola del regista, prodotta e distribuita da Netflix, I’m Thinking of Ending Things, dove i sogni di un uomo mediocre e frustrato diventano l’unica via di fuga in un mondo che non sembra, e non vuole, comprendere la sua sensibilità. Un’auto-apologia malinconica e poetica della vita di un uomo modesto, animata da una profonda e sincera devozione nei confronti delle arti come il teatro, la poesia, il cinema, la scrittura che lascia in noi profondi dubbi e, forse, anche insonnia per un paio di giorni. Non solo da vivere, ma da rivivere continuamente.