Nell’intervista con Annalisa Cavaleri, professoressa di Antropologia del Cibo all’Università IULM, cerchiamo di spiegare come cambia l’alimentazione nei periodi di crisi.
In particolare, come varia il menu e l’approccio alla ristorazione con l’arrivo del Covid-19.
Innanzitutto, in quanto docente di Antropologia del Cibo, come ha pensato di trattare queste tematiche nel suo corso?
Alla programmazione ordinaria del corso ho affiancato una parte dedicata alla comunicazione di crisi nell’ambito del food e della ristorazione: con gli studenti abbiamo affrontato per tre lezioni il tema di come cambia l’alimentazione in fase di emergenza. Devo dire che hanno dimostrato grande interesse ed ho ottenuto un’ottima risposta.
Nell’emergenza attuale come è cambiata quindi la nostra relazione con il cibo?
Con lo scoppio di una crisi il primo pensiero dell’uomo è la sopravvivenza. La “risposta istintiva” è la corsa alle proteine animali, come carne, latte e uova, come insegna l’antropologo Marvin Harris. I carrelli si sono poi riempiti di cibi a lunga conservazione, quali surgelati e conserve.
Dalla “fame di proteine” si è passati ad una seconda fase caratterizzata dall’amore per la panificazione. Il pane è l’alimento più antico della storia dell’uomo, simbolo dell’unione dei popoli. Le famiglie, durante la crisi, si sono raccolte attorno al “focolare” domestico, chiamato così proprio perché, anticamente, gli esseri umani si riunivano attorno a un fuoco per scaldarsi, mangiare e raccontarsi storie di vita.
Il Covid ci ha fatto tornare un po’ al “passato”, aiutandoci a ritrovare quel senso di unione, di famiglia e di socialità che avevamo in parte perso.
Come rispondono allora i cibi “inessenziali” ai periodi di crisi?
Come in passato con la guerra, anche oggi con la pandemia, si rinuncia ai cibi legati alle mode, al “lifestyle”. Quindi “addio” a zenzero, curcuma e te matcha. Le vendite si sono praticamente azzerate in tempo di pandemia.
Si ripiega sui cibi semplici, familiari e “riconoscibili”, con un boom di patatine e snack, visto che siamo stati la maggior parte del tempo sul divano.
E per quanto riguarda la consumazione di sostanze alcoliche?
Dopo una fase iniziale in cui il settore ha sofferto molto, a causa della chiusura dei ristoranti, il consumo domestico di vino, birra e aperitivi è aumentato. In molti hanno riscoperto il “rito dell’aperitivo” a casa.
Nel trend positivo degli alcolici, si segnala uno stop alle bollicine, che di solito sono usate per “festeggiare” e, diciamocelo chiaramente, non ne avevamo molta voglia. In controtendenza il Prosecco, che è stato molto acquistato in tempi di crisi.
La cucina e i cibi asiatici invece soffriranno qualche contraccolpo?
Fin dall’inizio Milano si è dimostrata vicina alla comunità cinese e questo senso di solidarietà proseguirà anche nel futuro.
Chi ha costruito negli anni un rapporto di fiducia con i clienti, avrà la vita più facile. E’ adesso il momento di usare – da parte del ristoratore – questo “tesoretto” di fiducia conquistato con il tempo.
Uno dei settori messi più a dura prova è appunto quello della ristorazione. Come hanno reagito l’alta cucina e gli chef stellati?
Moltissimi chef si sono mobilitati per il bene della comunità. Penso all’impegno dello chef stellato Carlo Cracco, che ha preparato i pasti per gli impiegati dell’ospedale Covid dell’ex Fiera a Milano, o ai tristellati fratelli Cerea, che hanno prestato servizio all’ospedale da campo di Bergamo.
Per “ripartire” gli chef hanno organizzati delivery e registrato video-ricette. Un modo per stare vicino ai propri clienti e al proprio pubblico anche in tempi di emergenza.
A proposito del delivery, quali sono le diverse formule?
Ci sono varie proposte: i kit con gli ingredienti per fare la ricetta a casa, come ad esempio pasta e sughi, oppure mix di farine e decorazioni per una torta. Si punta su ingredienti qualità, ma bisogna cucinare a casa.
Un’altra soluzione è stata il delivery di piatti già pronti: naturalmente in questo caso il raggio di consegna deve essere limitato, altrimenti il piatto si rovinerebbe, soprattutto se parliamo di alta cucina.
Una modalità intermedia è quella adottata dallo chef stellato Massimo Bottura con il suo bistrot gourmet Franceschetta 58: viene consegnato un kit che contiene piatti da rigenerare a casa. Un esempio: la carne, già quasi cotta, viene scaldata in acqua bollente per qualche minuti, poi condita con un mix di erbe e oli aromatizzati contenuti nel kit. In poco tempo si ottiene un piatto caldo e “da chef”, che può essere spedito anche a lunga distanza, e senza “cucinare troppo”.
Come dovrà adattarsi la ristorazione italiana nel futuro prossimo della pandemia?
Sicuramente dovranno esserci dei cambiamenti, in primis la diminuzione dei coperti. Molti chef, come il tristellato Niko Romito, sostengono che penseranno a menu sempre più sostenibili e attenti al territorio. Diventerà ancora più importante l’accoglienza, perché al ristorante, si va per piacere e non si può “stare in ansia”.
Lo chef stellato Matias Perdomo mi ha raccontato che penserà a orari di apertura molto più lunghi: si potrà mangiare bene a tutte le ore, anche durante il pomeriggio, ad esempio, o fino a tarda sera. In questo modo si eviteranno “assembramenti”, perché il cliente non si concentrerà nei classici orari di pranzo e cena.
Come pensa che il settore si risolleverà da questa crisi?
Una soluzione temporanea è quella americana dei Dinner bond. Si tratta di voucher a lunga scadenza, per cui il cliente “investe” sul proprio ristorante preferito acquistando un pasto in anticipo, di cui potrà fruire quando ci sarà la riapertura. Hanno avuto un grande successo: ad esempio, i dinner bond dello chef Massimo Bottura sono andati “sold out” in pochissimo tempo.
Personalmente credo molto nelle potenzialità dei professionisti del mondo del food. Con la dovuta attenzione, si tornerà ad un trend positivo.