Wayne Shorter, un sassofonista tra bebop e buddhismo

Uno dei più grandi sassofonisti di sempre, Wayne Shorter, osservato attraverso due memorabili lenti: quella di Michelle Mercer, ardita scrittrice di Wayne Shorter: il filosofo col sax e di Daisaku Ikeda, illustre rappresentante del buddhismo Nichiren e sagace interlocutore nell’intervista racchiusa nel libro Storie di vita, jazz e buddhismo.

Due letture coinvolgenti che contribuiscono, ciascuna a modo suo, a delineare la poliedrica personalità, impetuosa e pur tuttavia equilibrata, di Wayne Shorter.

Wayne Shorter

Dall’Ironbound District al Birdland

Le peculiarità di Wayne Shorter, ermetico sin da piccolissimo, trovano una perfetta corrispondenza nella musica bebop. La scoprì quasi per caso attraverso Make Believe Ballroom, il programma radiofonico più ascoltato a casa sua. Si tratta della trasmissione che una sera decise di rivoluzionarsi trasmettendo Off Minor di Thelonious Monk.

Esemplificativo di questa precoce e singolare attitudine è il suo arrivo alla competizione indetta da Nat Phipps per permettere il confronto tra le band della Newark School Of The Arts. Il bebop non era solo un’ondata di musica fresca, spontanea e coinvolgente: il bebop era uno stile di vita, una dichiarazione di anticonformismo alla quale Wayne e suo fratello Alan aderirono con anima e cuore. Alla gara, nella quale si sarebbero confrontate la band degli Shorter e una più convenzionale, decisero di presentarsi vestiti da becchini. I loro completi erano bizzarri e poco consoni all’evento, mentre gli strumenti erano avvolti nella plastica trasparente.

Il genio di Shorter, articolatosi attraverso clarinetto, sax tenore e sax alto, ha dato prova sin dagli esordi di estrosità unicità. Ciò gli ha permesso di conoscere e collaborare con i grandissimi del jazz quali John Coltrane, Miles Davis ed Herbie Hancock.

Imparare a esserci per esserci davvero

È proprio con Hancock che Shorter ha condiviso alcune tra le esperienze più rilevanti della sua vita, dalla permanenza nello storico quintetto di Miles Davis sino all’avvicinamento alla fede buddhista.

La riflessione riguardo l’analogia tra jazz e buddhismo, condotta in compagnia del professor Stefano Lombardi Vallauri, si è basata sull’illuminante intervista a tre fatta a Shorter, Hancock e Ikeda. Sono stati così rischiarati numerosi nessi tra il jazz e il buddhismo predicato dalla Soka Gakkai, di cui Ikeda è presidente.

Ciò che più mi ha colpito del discorso articolato in compagnia del professore è il ruolo che questo credo ha avuto per i due musicisti. La professione di questa fede ha portato i due musicisti a un autocontrollo sempre maggiore. Questa era una qualità fondamentale per un bopper che, improvvisando ogni pezzo, doveva essere consapevole di sé e del proprio strumento in ogni momento.

L’intreccio culturale creato da Shorter, Hancock e Ikeda in questa intervista ha portato alla luce diverse intuitive, seppur recondite, analogie tra jazz e buddhismo. L’equilibrato dualismo tra collettività e individualità ne è un esempio: la prima come fondamento e valorizzazione del prossimo e la seconda come condizione indispensabile. Ogni strumento della band ha infatti il suo ruolo imprescindibile, e così ogni membro unico della comunità.

Se parlare di jazz è già di per sé un’avventura, parlare di jazz e buddhismo è praticamente impossibile. L’unica via era tentare di farlo nella maniera più consona all’argomento, ovvero improvvisando. Devo dire che poche altre volte mi è capitato di portare avanti con tanto interesse, stupore e fluidità una conversazione su temi tanto lontani dalla quotidianità. Un grazie speciale va al professor Vallauri per essere stato, nonostante l’impedimento tecnico, un eccellente interlocutore e fonte di spunti di riflessione.

Per saperne di più, ascoltate le ultime due puntate di Jazz Don’t Mean A Thing!

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