Una luce, solo una piccola luce, illumina Casey Affleck e Anna Pniowsky, padre e figlia nell’iniziale piano sequenza di Light of my life, nuovo film diretto da Affleck stesso.
Nella tenda il padre, disteso accanto alla figlia, le narra delle storie. Da questo incipit parte il racconto che vede protagonisti questi due personaggi immersi in un mondo post-apocalittico. In viaggio da un bosco all’altro, accampandosi qua e là con la tenda che portano sulle spalle.
Il mondo in cui si muovono, dieci anni prima, è stato colpito da un virus – di cui non ci viene detto nient’altro – che ha ucciso tutte le donne, o quantomeno la maggior parte.
Tranne Rag, la figlia del protagonista, che al momento del contagio era nata da pochissimo tempo. Allora il personaggio interpretato da Affleck, un padre superprotettivo e sempre sull’attenti che osserva tutto e tutti, nasconde l’identità di genere di sua figlia.
Per un motivo, anche questo, che non viene detto chiaramente e che alla ragazza stessa non viene precisato, ma che si può ben immaginare. Così Rag porta i capelli corti, si veste con abiti da maschio ed evita di parlare il più possibile in presenza di sconosciuti, per nascondere la sua voce.
Un viaggio di sopravvivenza
Questo film è, innanzitutto, un viaggio di sopravvivenza. Affrontato stando il più possibile lontano da tutti e seguendo regole precise. Da una tenda montata in una foresta si va in un’abitazione abbandonata, alla ricerca di qualcosa che si possa chiamare casa. Con pericoli di cui il personaggio di Affleck, del quale non viene specificato il nome, sa bene l’esistenza, ma che non per questo riuscirà a evitare di mettere lui e sua figlia in situazioni rischiose. Tra persone, incontrate durante il cammino, disposte ad aiutarli, ad altre che saranno ben poco amichevoli.
Il regista, con questo suo lavoro, dà forma a una narrazione fatta prima che di attori, di ambienti, di rumori, di sensazioni. Dando vita, dalle riprese in tenda fino ai campi lunghi, a dei quadri di rara bellezza, con paesaggi paludosi, invernali, autentici.
Un modo di girare che rende anche più facile l’immersione nella storia da parte dello spettatore, più facile sentire i dolori e le preoccupazioni dei personaggi e il crescere della tensione quando si sente che il pericolo è vicino, in agguato.
Ed è un film che si va ad aggiungere una lunga serie di altri lungometraggi che mettono al centro il rapporto padre-figli; lontani questi dalla società per scelta o, come in questo caso, obbligati. Da, ad esempio, The Road di John Hillcoat a Captain Fantastic di Matt Ross, fino al recente Leave no trace di Debra Granik.
Oppure film che come questo mettevano al centro una figura maschile (adulto) e una femminile (ragazza) contro un nemico comune, come You were never really here di Lynne Ramsey o il cult Léon di Luc Besson.
Tutti entrati a far parte ormai di un grande sottogenere cinematografico, in cui dei personaggi si ritrovano a poter, o a voler contare solo sull’altro.
Dopo il falso documentario I’m still here del 2010, con Joaquin Phoenix protagonista, Casey Affleck si rimette alla prova con questo suo primo film di finzione, diretto, sceneggiato e interpretato da se stesso. Una storia che colpisce per la forza che riesce a esprimere anche nelle scene all’apparenza più calme. Come può esserlo una fiaba raccontata in una tenda, immaginaria ma allo stesso tempo che vuole insegnare qualcosa. O come il protagonista, in una delle scene più ironiche del film, che trovandosi in una libreria abbandonata cerca un libro sul come crescere la propria figlia nell’età dell’adolescenza. Fino al suggestivo finale, il quale apre alla speranza di poter contare su un passaggio di testimone verso le nuove generazioni.
Presentato al Festival di Berlino, adesso al cinema.