Era aprile, il dodici, ricordo ogni dettaglio di quel mattino, a partire dal momento in cui è suonata la sveglia. Sembrava, dopo mesi particolarmente freddi e nuvolosi, che fosse finalmente arrivata la primavera.
Lo si percepiva dall’aria, meno pungente del giorno prima, dall’azzurro caldo del cielo, ma soprattutto dal cinguettio dei passeri che aveva accompagnato il mio risveglio.
«La terra sta rinascendo» ha annunciato papà durante la sua solita ronda in camera mia per controllare che non avessi ignorato la sveglia per rigirami sul lato opposto e continuare a dormire.
Avevo diciotto anni e ancora pochissima fiducia da parte sua riguardo la mia forza di volontà. Quel giorno non l’ho deluso, anzi, sono scesa dal letto con particolare entusiasmo, per nulla spaventata dal fatto che avevo dimenticato di fare i compiti di matematica ed era il mio turno di correggerli alla lavagna, ho fatto la mia solita colazione a base di latte, caffè e fette integrali con marmellata di ciliegie, ho osato indossando una maglia a fiori gialli e sono uscita. Avrei preso la bici e detto ufficialmente addio al torpore al quale mi aveva abituato l’inverno.
Arrivata in classe mi sono diretta verso Stella e Lorenzo che stavano, a loro solito, discutendo:
«Rivoluzione francese!»
«Ma se parlava dell’Ottocento, ti rendi conto che c’era già Napoleone?»
«Vedi, come al solito non capisci nulla, ha citato l’Ottocento solo per un appunto, non era quella la domanda! Franci, glielo spieghi tu che la prof. voleva sentir parlare della rivoluzione?»
Abituata ai loro battibecchi, mi sono messa a
ridere e ho portato la discussione sul tempo.
I miei due migliori amici: quest’anno lui si è finalmente dichiarato, lei per
un po’ ha finto che la cosa l’avesse stupita, come se il fatto che fossero
fatti l’una per l’altro non fosse evidente, ma poi ha ceduto e sono stati
felici per mesi. Da qualche giorno lui è sparito e Stella non riesce a darsi
pace.
Al suono della campanella la professoressa è entrata in classe e noi siamo andati a sederci ai nostri posti.
È in quel momento che ho iniziato a percepire uno strano dolore alla testa, in un punto preciso, come se un ago si stesse pian piano infilando nello spazio tra il cranio e la tempia. Faticavo a seguire i discorsi sulla poetica di Alfieri e scrivere mi provocava un forte senso di nausea. Subito ho dato colpa alla stanchezza senza preoccuparmi troppo, poi mi sono ricordata che, quando ero piccola, mi succedeva di avere attacchi di emicrania e questa combinazione di sintomi aveva tutta l’aria di essere l’inizio di uno di quelli.
Era passata la prima ora quando, alzando lo sguardo, ho avuto l’impressione che le teste dei compagni davanti a me si fossero raddoppiate e cominciassero pian piano a perdere la loro consistenza. D’istinto ho stretto la testa tra le mani, come per volerla fermare.
«Francesca, tutto bene?»
«Mi scusi, professoressa, vedo tutto girare.»
«Sarà un calo di pressione, Maria vai a prenderle una bustina di zucchero in bidelleria.»
Uno, due, tre respiri profondi, Maria è arrivata e ho buttato giù i granelli bianchi come acqua fresca nel deserto. Stavo meglio, il mondo attorno aveva smesso di ruotare freneticamente, solo quella fitta nella nuca non perdeva intensità e così all’intervallo ho deciso di andare in bagno per riempire la bottiglietta d’acqua e prendere un antidolorifico.
Nell’istante esatto in cui mi sono alzata in piedi quel fastidio si è trasformato in un dolore lancinante e fulmineo, come se l’ago nella mia testa fosse stato spinto più forte, la stessa pressione usata per scoppiare un palloncino, un attimo prima aria, colore, un solo gesto e questo esplode. Così qualcosa è esploso anche vicino al mio cervello, qualcosa di grande e pieno di un liquido caldo che è esondato improvvisamente nel mio cranio e poi in tutto il mio corpo, portandosi via con la sua corrente i miei sensi, le mie forze e i miei pensieri.
La spina: unica fonte di protezione e il più grande sintomo di fragilità, di impotenza, di precarietà.
È una sensazione difficile da spiegare, la chiamano emorragia cerebrale, ti alzi un giorno e all’improvviso la tua esistenza non dipende più da te, non è più la forza dei muscoli involontari a far funzionare il tuo organismo o la volontà della mente a comandare i movimenti. A un tratto la distanza tra la vita e la morte si riduce a un sistema di circuiti elettrici e davvero viene da chiedersi se vi è ancora dignità in questa lotta contro il destino.
A me piace paragonare questo processo a una metamorfosi, immedesimandomi in uno di quei fiori che si regalano gli amanti: come un bruco si trasforma in una splendida farfalla, io divengo una rosa, con la mia spina che mi difende, la mia immobilità e il mio silenzio.
Chissà allora se avrò la possibilità di sbocciare di nuovo, qui sulla terra o lassù nel cielo, se mi sarà concesso di respirare ancora la libertà della vita, di stupirmi della bellezza e dell’infinità del nostro universo, diventando così la più speciale delle creature: una rosa senza spine.