Una storia così, nella mente di una bambina sognatrice e ingenua com’ero, divenne subito una fiaba alla quale ero destinata a donare un lieto fine, come gli eroi dei racconti della maestra, magari raccogliendo le lacrime cadute per sbaglio o direttamente prestando le mie.
Ma ben presto mi accorsi che tra le persone che incrociavo vi erano troppi cuori scarichi e troppo poco coraggio di ammetterlo.
Questo segreto permise che tra me e mia madre si stabilisse un tacito accordo, per il quale lei non avrebbe fatto domande tutte le volte in cui avevo bisogno di stare in camera mia a sfogarmi senza dare spiegazioni, e così passarono i brutti voti a scuola, i litigi con le amiche, le insicurezze della pubertà e le prime delusioni d’amore. Io, d’altra parte, le avrei portato bignè alla fragola ogni volta che l’avessi vista un po’ affranta.
Mi chiedo se è per questo che non è ancora riuscita a trovare la pace dopo l’arrivo della spina.
Ci sono giorni in cui davvero credo che le basterebbero dei pasticcini accompagnati da una tazza di the verde e improvvisamente tornerebbe a sorridere come un anno fa, ricomincerebbe a insegnare pianoforte ai suoi ragazzi, ad andare a teatro con Monica e Mario e a leggere i suoi amati libri gialli, senza passare le giornate a cercare una risposta, una soluzione per questo caso per il quale non esiste un colpevole.
Adoro il rimando spontaneo dell’immaginario umano nell’udire la parola spina. Scommetto che a molti viene in mente una delicata, bellissima rosa, magari bianca, oppure rossa per i più passionali, vista in un giardino o disegnata su qualche libro di fiabe. Quanta verità ricevono inconsciamente i bambini attraverso le storie che vengono loro raccontate: imparano l’importanza della sincerità grazie a un burattino con un sogno nel cuore, la bellezza dell’amicizia immaginando sette nani stacanovisti sconvolti dall’arrivo di una principessa dalla carnagione color della neve, imparano che l’amore è pazienza da una scarpetta di cristallo perduta allo scoccare della mezzanotte.
Tra tutte, però, la morale che più mi affascina è quella insegnata da una rosa purpurea nascosta nella stanza remota di un castello sul quale vige un terribile incantesimo.
Ho letto e riletto questa storia e mi piace quando a qualcuno viene in mente di farmela ascoltare ancora, tipo martedì, quando Stella è venuta a trovarmi.
«Ti vedo un po’ spenta oggi, sarà il tempo, piove da giorni ormai. Sai cosa facciamo? Prendo una cioccolata e ci guardiamo La Bella e la bestia, come facevamo alle elementari. Certo, i costumi da principessa non sono più della taglia giusta, ma credo sarà comunque magico.»
Ho percepito i suoi occhi illuminarsi, come se la sua fosse stata un’intuizione grandiosa, e senza aspettare un cenno ha tirato fuori il computer e cercato la migliore versione streaming che internet poteva offrirci. Ringrazio ogni giorno di essere finita nella sua stessa classe all’asilo, non so come sarebbe la mia vita oggi senza la mia folle, ma così determinata, migliore amica.
Questa volta in particolare, ascoltando lo scorrere del cartone animato, non ho prestato attenzione alla storia d’amore tra Belle e il suo principe o alle fantastiche colonne sonore, ma sono stata totalmente catturata dall’immagine di quel fiore magico, conservato sotto una teca e tenuto al sicuro in un luogo nascosto nella speranza di proteggerlo così dal suo destino, come se questo dipendesse dal mondo attorno. Non sono il vento, la polvere, o il tocco di una mano però a decidere per la vita di quella rosa, inevitabilmente essa lascerà cadere uno a uno i suoi petali, dimostrando silenziosa la caducità alla quale tutti noi esseri viventi siamo costretti.
Silenzio.
Nessuno si accorge di un fiore quando muore, nessuno può sentire il suo dolore,
il lamento prodotto da quel lento deperire. Ed è proprio questo silenzio la
trappola peggiore, l’impossibilità di gridare, di comunicare agli altri il
proprio dolore e condividere quindi sensazioni, dubbi, richieste, paure.
Cosa mi sta succedendo? Che ne sarà di me? Abbracciami.
Ecco che la spina trova il suo ruolo: unica fonte di protezione, unico sintomo di dolore, perché se si ha bisogno di una spina vuol dire che senza si è troppo vulnerabili, come una rosa, che rinuncia alle carezze per il timore di essere strappata.
Una spina che salva e allo stesso tempo allontana gli altri, egoista nel suo ruolo di redentrice, lasciandoli così liberi di andare, risparmiando loro l’angoscia della fine, la sofferenza causata dall’amore provato nei confronti di una creatura così fragile.
Vorrebbero poter far qualcosa, gli altri, trovare una cura, fermare lo scorrere del tempo, ma non possono far altro che restare a guardare, tormentarsi e chiedersi «perché», «perchè a lei», la stessa domanda che riecheggia nella mente di mio padre, di mamma e di tutte le persone alle quali voglio bene, seguita da pentimenti ingiustificati e da un senso di impotenza in grado di mettere in discussione l’utilità stessa della vita. Non desidero altro che dar loro la pace, fargli capire quanto in realtà stiano facendo e spiegare loro che ogni secondo che mi regalano rende meno pesante l’attesa dell’inevitabile, riempie di amore, serenità e dolcezza quei momenti, altrimenti vuoti, tra la caduta di un petalo e l’altro.
Forse no, le persone attorno non possono tenerci in vita, né comprendere il dolore che preme sul nostro petto, ma possono renderlo un po’ meno pesante da portare.