Dopo svariati tentativi in ogni genere di settore, colloqui fallimentari e risposte mai ricevuto, mi sono imbattuta in un annuncio affisso nella lavanderia sotto casa.
Si cercava con estrema urgenza un portinaio per un palazzo d’epoca fuori Dublino che fosse disposto a trasferirsi nella dépendance adiacente con orari di lavoro flessibili e disponibilità ventiquattr’ore su ventiquattro. Pronto a prendersi cura dell’edificio, di accogliere i condomini, sorvegliare la struttura e, quando necessario, a fare piccoli lavoretti di riparazione nei singoli appartamenti.
Non ci ho pensato due volte, ho strappato dalla bacheca l’annuncio (almeno così da ridurre, anche se di poco, le possibilità che qualcun altro lo vedesse e si candidasse), sono corsa a casa, mi sono piazzata davanti al computer con ancora indosso l’impermeabile e ho scritto e poi inviato una lettera di presentazione che urlava disperazione da ogni riga.
«Lavorare al servizio degli altri è sempre stato un mio grande sogno… Come giovane donna abituata alla città desidererei ardentemente sperimentare la vita in periferia… Il benessere e la sicurezza dei condomini sarebbero la mia prima e unica priorità… Sarei sempre disponibile e pronta a qualsiasi ora, ho un sonno leggero e sono molto reattiva… Affidabile, responsabile, ben organizzata…»
Evidentemente pochi si sono candidati e la necessità di trovare qualcuno era altamente urgente perché dopo neanche una settimana dalla mia patetica lettera sono stata contattata e invitata a presentarmi presso la residenza con bagagli e bagaglini. Nessun colloquio, nessuna referenza necessaria, nulla di nulla.
Non ho fatto sapere niente a mamma e papà, ho continuato a fingere di frequentare quell’inutile università, ho continuato a farmi mandare i soldi per l’affitto dell’appartamento in centro (che ho furbamente subaffittato) e ho continuato a inoltrare a papà e-mail rassicuranti sul mio percorso di studi.
Tata Maria non l’ho più sentita. Non ci siamo lasciate nel migliore dei modi.
Mamma e papà hanno deciso di continuare a tenerla anche quando ho raggiunto l’età nella quale avere una tata diventa qualcosa di preoccupante. Ha continuato a cucinare per noi, tenermi d’occhio durante le superiori, a organizzare casa e gli impegni dei miei.
La sera prima di partire per l’Irlanda, mentre aspettavamo papà per cena e speravamo che mamma si presentasse, così dal nulla Maria si è avvicinata a me in tutto il suo metro e cinquanta di rigidità milanese, ha preso le mie mani tra le sue, mi ha guardato dritto negli occhi e con voce ferma è partita con uno di quei suoi discorsi filosofici di cui poche volte ho davvero colto l’essenza: «Matilda, la colpa è tutta tua. Solo tua. Ricordalo sempre. Ho cresciuto diversi bambini prima di te, meno fortunati, meno amati. Hai un padre meraviglioso che ti ama da impazzire. Hai avuto miliardi di possibilità, infinite opportunità che la maggior parte delle persone può solo che sognare. E hai buttato tutto all’aria. Hai deciso di servire la mediocrità. Hai una situazione economica che chiunque ti invidierebbe e il totale supporto di un genitore, eppure ti sei convinta di non essere speciale, di non essere mai abbastanza e così facendo ti sei distrutta con le tue stesse mani, condannandoti a una vita senza effetti speciali. Non hai coltivato relazioni sane, non ti sei posta degli obiettivi sportivi, scolastici, artistici. Sai solo piangerti addosso, non ci hai mai neanche provato a fare qualcosa per davvero. Hai continuato a ripetere davanti allo specchio che non hai alcun talento, nessuna capacità, nessun accenno di carattere. Lo hai detto così tante volte che ogni fibra e cellula del tuo corpo ha iniziato a crederci.
E lascia che ti dica un’ultima cosa. Sei la persona più insipida che sia mai esistita. Non avrei mai neanche potuto immaginare che potesse esistere qualcuno così. Tu non hai carattere. Mai hai detto no a qualcuno, mai hai detto sì. Non ridi mai, non piangi mai. Non sei simpatica, non hai senso dell’umorismo. Sei uno di quei piatti insipidi di cui nessuno si ricorda una volta finita la cena, uno di quei film mediocri di cui ci si dimentica una volta usciti dal cinema. Non colpisci in positivo, non colpisci in negativo.
Sai, Matilda, durante l’università più volte mi è capitato di imbattermi in scritti latini. Svariate sono le frasi, i racconti, gli aneddoti e le poesie che mi sono rimasti impressi e mi hanno accompagnato durante tutta la vita. Una citazione in particolare mi ha colpito, perché per quanto mi sforzassi non riuscivo a coglierne pienamente il significato. Spina etiam grata est, ex qua spectatur rosa.
Anche una spina, mia cara, è gradita quando poi ci si aspetta di vedere una rosa.
E sai quando ne ho colto il vero significato? Quando ho conosciuto te. Non sei mai stata una bambina problematica, non hai mai mostrato gravi problemi, mancanze o un carattere irrequieto. Ma non hai mai neanche espresso una qualche qualità, attitudine o preziosa capacità. In tutta la mia esistenza ho incontrato svariate personalità, qualcuna più dolce, delicata, serena, qualcuna più forte, testarda, dura. Ma tutti, e dico proprio tutti, hanno mostrato, prima o dopo, le loro spine. Spine che hanno l’intento di nascondere la vera bellezza, i sentimenti più profondi, le vere qualità e capacità che ognuno di noi, e dico ognuno, porta con sé. Poi ho incontrato te e ho aspettato. Ho aspettato che mi mostrassi le tue spine, le tue debolezze, le tue paure più profonde, i lati del carattere peggiore, quelle abitudini squallide e disgustose. Le ho aspettate con la consapevolezza che più spine una persona mostra, più è preziosa la rosa che si cela dietro. Tu non sei in grado di provare alcuna emozione, sentimento, stato d’animo. Non hai capacità, non hai talenti nascosti o sfaccettature interessanti. È come se fossi perennemente in uno stato di trance. Sei un vegetale, Matilda. Vivere non è qualcosa che ti interessa, vivere non è qualcosa che meriti.
Tu, mia cara, sei e sarai sempre serva della mediocrità».
Non mi sarei mai aspettata un tale discorso da tata Maria. E al momento neanche l’ho capito tanto. Ma poco importa.
Dopo il suo sfogo nessuna delle due ha più aperto bocca. Abbiamo cenato con papà come se nulla fosse. Poi, a fine serata, mi ha salutata freddamente ed è uscita dalla porta. Il giorno seguente ha mandato la lettera di dimissioni e non ha più lavorato per noi.
Nel giro di pochi giorni ho raccattato la mia roba, lasciato le chiavi al subaffittuario e preso un treno diretto al paesino.
Da lì avrei preso un autobus e raggiunto finalmente il palazzo dove avrei incontrato quelli delle risorse umane per la firma del contratto e le ultime indicazioni.
In meno di sei mesi sono diventata una perfetta portinaia. Esemplare. Mi destreggio tra i vari lavoretti, riparo cose facilmente, riesco a tenere sotto controllo lo stabile e gli inquilini. Con estrema naturalezza memorizzo i loro ingressi, le uscite, le abitudini, quello che gradiscono e quello che detestano. Ho imparato a conoscerli tutti, i loro segreti, le loro paure, le loro capacità e i loro punti deboli. Non solo, conosco anche i parenti che vengono a trovarli sporadicamente, gli amici più stretti e gli amici degli amici invitati solo in alcune occasioni.
Entro nelle loro abitazioni quando sono al lavoro, in vacanza o dai genitori per il fine settimana, tocco le loro cose, frugo tra i cassetti, indosso i loro abiti, le scarpe e i gioielli, leggo i loro libri, apro i diari segreti, osservo con cura gli album fotografici, mi spruzzo i loro profumi, mi capita di dormire nei loro letti, fare lunghi bagni mentre guardo i loro film preferiti memorizzati su Netflix.
Dodici famiglie dimorano qui. È una di quelle costruzioni antiche e lussuose, con i pavimenti di marmo bianco, le scale di marmo bianco, il bancone di marmo bianco, le finestre enormi e nessun ascensore. Un lungo tappetto rosso è adagiato sui gradini all’ingresso principale. Una volta entrati, sulla destra si trova il mio bancone, rigorosamente di marmo bianco. Ho una sedia molto comoda con le rotelle, sul ripiano del bancone uno schermo di media grandezza per osservare i movimenti catturati dalle telecamere piazzate in diverse aree interne ed esterne e un piccolo campanellino usato dai condomini per richiamare la mia attenzione. Alle spalle del bancone c’è una teca dai bordi doranti contenente tutte le chiavi di scorta delle case. Il mio tesoro. L’inestimabile fonte di informazioni.
Il palazzo è circondato da un’ampia distesa d’erba, piante e cespugli. Tutto curato e perfettamente simmetrico. In un angolo dell’enorme proprietà c’è la mia dépendance. Una casetta su un piano, spaziosa e luminosa, completamente arredata. C’è persino una piccola taverna sotto l’abitazione con un divano, un tavolo, un televisore e qualche scaffale. Ci passo poco tempo qui, eppure non mi sono mai sentita più a mio agio. Nessun condomino viene mai a disturbarmi, se hanno bisogno fanno squillare il telefono. Gli esterni non possono entrare nella proprietà e ho la più completa privacy. Sono sicura che le famiglie a malapena si ricordano come sono fatta, che faccia ho, che profumo porto. Sono invisibile per loro, la portinaia mediocre, loro serva.
Eppure io conosco ognuno di loro, nel profondo. E mi va bene così. Posso vedere tutto e tutti senza essere vista. Ho imparato a conoscere gli inquilini e a distinguere quelli di cui vale la pena seguire la vita da quelli che non hanno mai fatto e mai faranno granché. Un po’ come si impara ad amare certi canali e a detestarne altri.
Dopo aver scrutato ognuno di loro, le abitazioni e tutto quello che contengono, ho stilato una lista. Su un foglio ho tracciato una riga verticale con la penna. Da una parte ho segnato i nomi degli speciali, dall’altra quella di coloro cui non vale la pena. Poi ho comprato dei quadernetti, tanti quanti gli speciali, sulla prima pagina ho scritto il nome della persona interessata e ho iniziato a scrivere la sua storia, arricchendola di giorno in giorno di particolari. Tutto ciò è molto più appagante e gratificante che guardare un film o di cercare di captare informazioni in una caffetteria.
La ricchezza del palazzo è direttamente proporzionale alla ricchezza dei condomini.
Veramente pochi di loro hanno una vita ordinaria e noiosa. E non ho alcuna intenzione di sprecar tempo a pensare o parlare di loro.
CONTINUA…