Pupi Avati ha 80 anni. Ed è importante ricordarlo.
Prima di tutto perché di vecchiaia ne parla in continuazione, quasi come se volesse esorcizzare quella paura costante e ineluttabile della morte.
E poi perchè i vecchi sono liberi di entrare a gamba tesa, maleducatamente, nelle stanze e di vomitare addosso agli altri tutto ciò che pensano.
Un grande maestro che il cinema italiano non ha ancora premiato come merita. Lui risponderà “C’ho ottant’anni -appunto- c’è tempo”
Surreale, quasi grottesco, ammaliante. Un uomo a cui si perdona tutto, anche quando se ne esce con “Siamo pieni di facoltà inutili, tipo mio figlio si è laureato in Scienze della Comunicazione. Non è che è questa? È questa, vero?”
Le origini del mito Pupi Avati
“Probabilmente ognuno di voi sente di essere il migliore. Il prescelto. Ed è il modo migliore di interpretare la vita: aspettarsi che succeda qualcosa di grande”.
Ricorda i tempi di quando suonava per le vie di Bologna con Lucio Dalla. Non avevano soldi e alla fine delle prove andavano a prendersi una birra e una ciotola di fagioli per cinquanta lire. Lucio, puntualmente, non le aveva. Pupi gliele ha sempre anticipate.
Ricorda la sfrontatezza dell’amico nel raccontare che un giorno sarebbe diventato qualcuno, avrebbe avuto un successo incedibile. “Per me era un deficiente. Ma lui è andato oltre, quel nanerottolo sporco è entrato nella storia della poesia e della canzone italiana”.
Così, la notte prima del primo giorno di riprese del suo primo film ha preparato il discorso di ringraziamento per l’Oscar. Tutto in inglese. Non gli è mai servito, ma è ancora lì.
Lui, diventato regista per caso e per scelta.
Il caso. Giuseppe “Pupi” Avati è un rivenditore Findus. L’acquirente del giorno è in ritardo di due ore e lui, nell’attesa, entra in un cinema di paese dove trasmettono “Otto e mezzo”. Fellini, cinema che parla di cinema. Ne rimane affascinato e corre al Bar Margherita dove invita tutti i suoi amici ad andare a vederlo.
La scelta. “Pupi, l’abbiamo visto tutti. E ora che facciamo”. “Lo facciamo”. “Che cosa?”. “Il film”.
La sgangherata ricerca di fondi fino alla comparsa del misterioso Mister X, gli attori, le prove, il ciak urlato al posto di motore e lui che sviene. In tutto ciò, pure Ennio Flaiano che gli manda una lettera a casa in seguito alla richiesta di attenzioni. Diceva “Non scrivetemi più”.
Hai paura del buio?
Torna al cinema dopo sette anni di televisione, ma è un ritorno universale allo stato primordiale, all’infanzia, alla possibilità di andare oltre, di raccontare l’inverosimile, l’irreale. A quel buio, che da piccolo riempiva con le spaventose immagini evocate dai racconti della zia.
Ritorna a quel mondo spaventoso dov’era possibile il miracolo, dove l’impensabile camminava di fianco al pensabile. Dice di aver un rapporto complicato con la fede in grado di regalargli momenti di profonda pace e riflessione. E proprio in quelle riflessioni continue che ha capito di essere una persona cattiva. Colpevole di due gravi peccati: invidia ed egoismo.
È andato fino a San Pietro per farsi confessare da Giovanni Paolo II, ma al suo posto ha trovato un prete irlandese che l’ha invitato ad andare dallo psicanalista. Quella fu l’ultima volta che andò a confessarsi.
L’egoismo rimane e l’invidia pure.
“Godo quando un mio collega va male al botteghino. È quello Il signor diavolo. Capisci che il diavolo sei tu”.
Pupi Avati ha 80 anni. Ed è importante ricordarlo.
Perché solo a ottant’anni puoi, e devi, raccontare la vita. E lui lo fa.
“Da vecchio torni con la mano destra nella mano sinistra di tua madre, al bambino che sei stato. I vecchi e i bambini si percepiscono così tanto attraverso la vulnerabilità. Perché sia il vecchio che il bambino sanno entrambi di avere una vulnerabilità. Il vecchio che è diventato vulnerabile vede molto di se stesso negli altri, sa capire molto di più cos’è il prossimo. I vecchi sono infinitamente migliori, non sono più considerati. La cosa più meravigliosa è venire qua per raccontare la propria vulnerabilità, la propria paura, non per mostrare il medagliere. Questo è il modo più bello di comunicare. Cos’è il finale della mia partita? Sarà una cucina in San Rocco dove mio padre e mia madre mi aspettano per la cena. Grazie”
Grazie a lei, Maestro.