Capharnaum, dall’ebraico Kefar Nahum, indica caos, un luogo di confusione e dissolutezza, un inferno.
Così lo ha definito la regista e attrice libanese Nadine Labaki, giunta al terzo lungometraggio da lei diretto, dopo Caramel (2007) e E ora dove andiamo? (2011).
Lo ha descritto così perché inferno è la realtà vissuta dal protagonista, Zain. Egli è un bambino siriano che, come tantissimi altri, è costretto a fuggire dal proprio paese a causa dei conflitti che lo attanagliano, insieme alla sua famiglia.
Si rifugia a Beirut, nel Libano, e per sopravvivere e aiutare i suoi parenti, insieme ai suoi fratelli e sorelle lavora per il proprietario di un negozio che in cambio permette loro di vivere in una casa senza pagare.
Però il film non parte da qui, bensì da Zain in un tribunale, con vicino l’avvocatessa che lo difende (interpretata dalla regista). E’ detenuto in un carcere minorile per aver pugnalato un uomo. E il motivo per cui l’ha fatto è solo l’ultima delle ragioni per cui non ne può più dell’ambiente in cui vive.
Arriva infatti a denunciare i propri genitori per l’averlo messo al mondo. L’assenza di cura, la vita che è costretto a condurre, lo porta a sgridarli di non saper badare e voler bene ai propri figli. Non li denuncia solo per le condizioni di vita, ma soprattutto per la mancanza d’amore e d’umanità dimostrata ogni giorno.
Nelle baraccopoli di Beirut in cui vive, Zain non può andare a scuola, ed è costretto a vivere di poco, in condizioni quasi estreme. La sorella più grande che ha, Sahar, è la persona alla quale tiene di più, che lo aiuta nei momenti di bisogno e che gli fa compagnia. Lei, che a soli 11 anni sarà data in sposa dai suoi genitori, porterà Zain a ribellarsi alla sua condizione.
Confusione, viaggio, attori
E’ così che Nadine Labaki, con un accurato utilizzo della macchina da presa, ci porta in una realtà confusionaria, in continuo movimento e in cui si va quasi sempre di corsa. Prima all’inseguimento di qualcosa che permetta di arrivare a fine giornata, poi di qualcuno che permetta di scappare, magari in un paese in cui ci siano più possibilità di trovare un posto da chiamare casa.
Una speranza gli sarà data da Rahil, una giovane rifugiata etiope, e suo figlio Yonas, di cui si dovrà prendere cura una volta che Rahin sarà sorpresa con il permesso di soggiorno scaduto. Il legame tra i due permetterà a Zain di trovare uno scopo, anche se per poco.
L’impossibilità di scappare, causata anche dall’assenza di documenti che attestino l’esistenza di Zain, è rappresentata dalla regista mettendo in scena una situazione disperata quanto avvincente. Rappresentazione che trova un valore aggiunto nella grande prova recitativa del protagonista, dotato, nonostante la giovane età, di grandissimo carisma.
Un viaggio alla continua ricerca della speranza. Una denuncia politica ad un sistema che non permette una miglior vita a bambini come Zain, ai quali non viene data alcuna voce. Cosa che Nadine Labaki invece fa, dando un’idea molto realistica di come, tra corse e ricatti, tra speranze perdute e miseria, la ricerca di una vita serena, per bambini come Zain, sia ardua e abbia spesso un prezzo.
Molto realistica anche per il casting e la sceneggiatura del film. Per i ruoli, ad esempio, di Zain e Sahar, sono stati scelti bambini che hanno vissuto esperienze molto vicine a quelle dei protagonisti. Mentre per la sceneggiatura, la regista ha modellato la scrittura sulle vite dei protagonisti, modificandola più volte durante i sei mesi di riprese.
Zain al-Rafeea, il vero nome del protagonista, è davvero un rifugiato siriano, adesso in Norvegia con la sua famiglia, dove ha potuto cominciare ad andare a scuola.
Presentato all’ultimo festival di Cannes, vincendo il Premio della Giuria, e candidato all’Oscar come miglior film straniero.
Adesso al cinema.