Venerdì 16 luglio 1982 Lawrence Grobel entrò nel ristorante La Petite Marmite di New York, dove Truman Capote stava già finendo il primo cocktail.
Dell’intervista che lo scrittore rilasciò a Grobel furono trasmessi otto minuti, ma i due andarono avanti a vedersi. Colazione da Truman è il frutto delle loro conversazioni.
“La vera differenza tra le persone ricche e quelle normali è che quelle ricche servono a tavola delle verdure meravigliose”
Preghiere esaudite
L’intervista è un’arte. Tutto sta nel rendersi trasparenti per far risaltare l’altro, lasciandone emergere la personalità. Oates definì Grobel il “Mozart dell’intervista“. Infatti, a dominare l’intero libro non è lui, ma la lingua tagliente dello scrittore che ha raccolto i pettegolezzi dell’alta società newyorkese, svelandone l’ipocrisia in un ritratto dissacrante.
Capote non aveva paura di esprimere giudizi impopolari, in particolar modo nei suoi ultimi anni di vita. La pubblicazione di “Preghiere esaudite”, libro che metteva su carta i più scandalosi gossip della high society, lo attesta. Desiderata e realizzatasi l’ascesa sociale, il pupillo dell’élite riuscì così ad inimicarsi coloro che lo avevano accolto alle proprie feste.
Nella conversazione con Grobel si manifesta in pienezza lo spirito irriverente dello scrittore, in particolar modo in commenti e impressioni sul mondo dello spettacolo: Kerouac è un buffone, Golding un truffatore, Maryl Streep una gallina, il Nobel un’istituzione infima, Hollywood una discarica pubblica.
“Non capisco perché siano tutti così arrabbiati. Con chi credevano di avere a che fare, un buffone di corte? Io sono uno scrittore”
Un ragazzo prodigio
A otto anni iniziò a scrivere, a sedici era già uno scrittore competente e a diciotto iniziò a pubblicare. Venne definito un ragazzo prodigio. Eppure in questa genialità Capote vedeva una frusta per l’autoflagellazione: il talento richiede costanza e allenamento. È il tormento di trovarsi di fronte ad una pagina bianca e non sapere con che parole iniziare.
Con una prosa perfezionistica, Capote è stato uno dei maggiori esponenti del giornalismo narrativo. La scrittura di “A sangue freddo” fu un estenuante banco di prova, forse la più riuscita sperimentazione nell’ambito del romanzo-verità. Lo assorbì interamente per sei anni, in cui partecipò ad ogni processo e appello di Smith e Hickock. Stette in prossimità dei due assassini, fino ad assistere alla loro esecuzione.
“Non ho paura delle cose di cui in genere ha paura la gente. Non ho paura degli assassini. Ne conosco parecchi. […] Non mi piace rimanere solo per molto tempo”
L’arte dell’invisibilità
Grobel sostiene Capote. Lo pungola con domande scomode, aiutandolo a ripercorre le tappe del suo difficile passato. Gli dà l’opportunità di portare alla luce i pensieri riguardo al mestiere della scrittura, alle relazioni con celebri personalità, all’America.
L’intervistatore assembla il materiale di anni di conversazioni e lo ordina, restituendoci l’immagine di Capote nei suoi ultimi due anni di vita: un uomo solo, po’ inacidito, ma sempre frizzante, esibizionista e provocatorio.