L’edizione 2018 del contest Giovani Scrittori IULM ha dato alla luce Pelle, l’ennesima antologia di racconti nata in Ateneo per finire sugli scaffali delle librerie (clicca QUI per saperne di più).
Ed ha, il progetto curato dal prof. Paolo Giovannetti, visto partecipi decine di studenti, che hanno messo a frutto la propria creatività nella stesura delle loro storie.
Racconti d’amore, di fantascienza o semplicemente di fantasia: il risultato è una silloge che accontenta praticamente tutti, a partire da chi ha fatto da regista nella sua impaginazione (QUI la nostra intervista ad uno dei curatori).
Per questo Radio IULM – voce degli studenti, prima che radio delle arti – ha pensato di proporre alcuni dei racconti contenuti in Pelle, con una serie di pubblicazioni sul sito che vi accompagnerà per qualche settimana ogni lunedì, mercoledì e venerdì, fino a luglio inoltrato.
Quello che condividiamo adesso con i lettori di Radio IULM è il racconto di Maria Cristina Odierna. Si intitola Quattrocentotrentasette e qui sotto in esclusiva trovate l’ultima parte. Buona lettura!
QUATTROCENTOTRENTASETTE (3 di 3)
Il giorno dopo, di prima mattina, ci recammo al villaggio costeggiando in carrozza le piantagioni di caffè, una distesa di verde che sembrava infinita, di una bellezza mozzafiato. Nulla a che vedere con il villaggio della popolazione locale: una volta a destinazione capii perché Alvin aveva l’abitudine di chiamarlo ‘campo’. L’impressione era quella di essere su un campo di battaglia; non ho mai visto una tale povertà, Evelyn. Capanni fatiscenti usati come case e riparo dall’afa e dalle piogge, condizioni igieniche al dir poco disperate; non credevo che degli esseri umani potessero vivere in quel modo. Ero partito con la convinzione che a sconvolgermi sarebbe stato il colore della pelle di quegli uomini, ma ciò che provavo era solo rabbia e frustrazione per la loro esistenza indignitosa. Bastò una breve perlustrazione del campo per capire che la situazione era ancora più grave di quanto sembrasse. Ad attirare la mia attenzione furono due elementi: in primis mi resi conto che, inspiegabilmente, la maggior parte della popolazione del campo mostrava le stesse escrescenze dell’uomo che avevo visto nella foresta, ma in alcuni casi addirittura in maniera maggiore, con piaghe che si sviluppavano su tutto il corpo; nel corso dei mesi tentai di porre rimedio a questo focolaio attraverso l’utilizzo di unguenti e lo studio disperato dei manuali.
La gente, all’inizio un po’ diffidente nei miei confronti, col passare dei mesi si lasciava avvicinare e curare con più facilità, addirittura con sollievo. In secundis notai che il maggior numero dei malati era di sesso maschile, – e sai perché, Evelyn? Perché al campo non c’erano donne. Com’era possibile che, in una comunità così numerosa, la componente femminile fosse quasi inesistente? Ero disperato e senza possibilità di scoprire la verità. Non vedevo Sir Dixon dalla sera del mio incontro e comunicare con gli indigeni era impossibile. Un giorno però, molto tempo dopo, accadde qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Arrivai al campo nel pomeriggio, con una terribile intuizione: gli unguenti sembravano aver placato le eruzioni cutanee, in alcuni soggetti i sintomi erano spariti completamente, mentre altri presentavano delle preoccupanti ulcere. Temendo che si trattasse di sifilide portai con me il manuale, con l’intenzione di analizzare meglio alcuni malati; tuttavia i miei progetti andarono in fumo. Era venuta a mancare la donna più anziana del villaggio la quale, in una società matriarcale come quella del campo, rappresentava per tutti una vera e propria guida. Fu celebrata come da tradizione e assistetti alla ripulitura del corpo. Mentre mi trovano nella capanna dell’anziana donna, esaminando il cadavere notai qualcosa di sorprendente. Sul braccio della donna vi erano incisi dei segni, come delle bruciature sotto pelle. Stavo per prendere una lente d’ingrandimento quando qualcosa mi fece trasalire.
Vicino alla porta della capanna, in un angolo, vi era una bambina. Non avevo mai visto una giovane donna in quel campo, figurarsi una bambina. Tremava e aveva gli occhi pieni di lacrime; guardava il cadavere della donna come se fosse l’ultima cosa che avesse mai avuto in questo mondo. Mi avvicinai lentamente, scioccato. Mi fissava spaventata, raggomitolata su se stessa.« Tranquilla, non ti faccio del male.» sussurrai, sperando che in qualche modo potesse capirmi. Le guardai le braccia: aveva anche lei dei segni, questa volta più visibili. Erano numeri. «Quattrocentotrentasette.» sussurrai ancora, e lei sembrò annuire. Era impensabile che quella bambina si fosse incisa da sola quei numeri, si trattava di popoli analfabeti che non potevano avere alcuna conoscenza matematica. Mentre esaminavo quei segni, entrò Alvin. Mi lanciai verso la bambina, stringendola a me come per proteggerla. Alvin mi fissò, e poi posò lo sguardo sulla piccola. Si scagliò su di me, spingendomi sul gracile muro della capanna. «Ti ha dato di volta il cervello? Vuoi farti ammazzare?» lo spinsi, fuori di me. «Cosa diamine succede qui? Cosa fate a questa persone?» urlai, pieno di odio. «Non capisci? Per loro non sono persone!» rispose, altrettanto arrabbiato. Ebbi l’impressione che fossimo due anime in pena finite per sbaglio in un inferno vero e proprio. Guardai la bimba e mi sentii impotente. Chiesi ad Alvin dove fossero le donne del villaggio. «Le ha lui. Le prende e le numera, così da riconoscerle.» rispose, indicando il braccio della bambina.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, era un incubo. Gli chiesi come mai non avesse fatto nulla, come fosse riuscito a restare inerme di fronte a quel massacro, indifferente a tanta violenza. «Sono solo, Johannes! Siamo tutti soli qui!» gridò, scoppiando a piangere. Mi resi subito conto che stavo incolpando il carnefice sbagliato; siamo tutti vittime e complici di un sistema marcio e inarrestabile. Cosa ci dà il diritto di andare dall’altra parte del mondo e massacrare uomini e donne, proprio come me e te, Evelyn? L’erronea convinzione di essere superiori solo per il colore della nostra pelle, o la subdola consapevolezza che non saremo mai abbastanza? In quel momento decisi che l’avrei
portata via, che avrei salvato quella bambina. Non mi interessava più di me, del sistema e neanche di te, Evelyn. Ero partito per essere utile e servire la Nazione, ma ero diventato un assassino. Presi quella creatura innocente e tornai a casa, dove restammo per qualche tempo. Mi presi cura di lei come avrei fatto con i figli che non potremo mai avere, le diedi persino un nome: Angela. Si abituò subito ad essere chiamata in quel modo, ogni volta che mi rivolgevo a lei il suo volto si illuminava con un sorriso bellissimo, ogni volta era una pugnalata al petto. Pensavo alle donne che Sir Dixon aveva tra le sue grinfie, alle tante vite distrutte. Alvin mi fece visita in seguito; mi promise che avrebbe portato via Angela e che avrebbero lasciato il Kenya. «Voglio redimermi anch’io. Non sono un uomo cattivo. » mi disse sulla veranda del mio bungalow la notte in cui sarebbero partiti per Mombasa. Quella sera ci raccontammo le nostre vite sorseggiando del brandy, mentre la piccola dormiva.
Sapevamo che non ci saremmo più rivisti, ma forse è meglio così. Il giorno dopo andai a casa del colonnello: mi accolse lui stesso e quasi non lo riconobbi. La sifilide lo stava colpendo duramente e il male che aveva fatto all’umanità era visibile in ogni angolo del suo corpo. «So tutto.» gli dissi, senza giri di parole. Mi guardò col volto stanco di chi aspettava la fine da tempo. «Non giudicarmi, dottore. Sei colpevole quanto me. Lo siamo tutti.» rispose sogghignando, e aveva ragione. Purtroppo lui era solo la punta dell’iceberg. E io insieme a lui.«Si può ancora porre rimedio, lasci andare quelle donne, lasci in pace questa gente e torni in Inghilterra.» gli dissi, quasi supplicandolo. Rise, pieno di cattiveria. «E per quale ragione? Pensi che racconterei la verità?» sentenziò, uscendo sul balcone e avvicinandosi alla ringhiera. Lo seguii.«Se pensi che io sia la causa di tutti i mali sei uno stolto. E se pensi che distruggerò le speranze dell’intero Occidente per proteggere un branco d’incivili, beh, ti sbagli di grosso.» Quelle parole risuonano ancora oggi nelle mie orecchie, proprio ora, mentre ti scrivo questa lunga lettera. E la mia risposta resta la stessa che pronunciai mentre spingevo quell’uomo oltre la ringhiera, verso l’abisso dal quale proveniva: la violenza resta l’ultimo rifugio degli incapaci.
Probabilmente quando i tuoi dolci occhi azzurri accarezzeranno queste mie ultime parole e le tue lunghe dita sfioreranno questa carta consumata, la sentenza sarà già stata eseguita. Mia cara Evelyn, forse non condividerai la mia scelta, ma spero di ottenere la tua comprensione e il tuo perdono. Mi sono macchiato di crimini più orribili dell’uccisione di Sir Dixon; ho fatto finta di non vedere e, nella lotta contro il male, quest’ultimo trionfa solo quando i buoni si ritirano dalla battaglia. Ti ho amato tanto Evelyn, così come nei miei ultimi giorni ho amato Angela e la sua gente. Non ci crederai, ma l’affetto non ha razza. Il pregiudizio è solo una scusa che utilizziamo per giustificare la nostra incapacità di amare.
Tuo, Johannes.
(fine)
Parte 1 di 3 – Leggila QUI
Parte 2 di 3 – Leggila QUI
Continua a seguire i racconti di Pelle su radioiulm.it/blog