L’edizione 2018 del contest Giovani Scrittori IULM ha dato alla luce Pelle, l’ennesima antologia di racconti nata in Ateneo per finire sugli scaffali delle librerie (clicca QUI per saperne di più).
Ed ha, il progetto curato dal prof. Paolo Giovannetti, visto partecipi decine di studenti, che hanno messo a frutto la propria creatività nella stesura delle loro storie.
Racconti d’amore, di fantascienza o semplicemente di fantasia: il risultato è una silloge che accontenta praticamente tutti, a partire da chi ha fatto da regista nella sua impaginazione.
Per questo Radio IULM – voce degli studenti, prima che radio delle arti – ha pensato di proporre alcuni dei racconti contenuti in Pelle, con una serie di pubblicazioni sul sito che vi accompagnerà per qualche settimana ogni lunedì, mercoledì e venerdì, fino a luglio inoltrato.
La prossima storia che condividiamo con i lettori di Radio IULM è quella firmata da Daniel Cristian Tega, concorrente ma anche curatore dell’evento (QUI la sua intervista).
Il suo elaborato si intitola Il ragazzo della porta accanto, di cui trovate qui sotto in esclusiva la prima parte. Buona lettura!
Il ragazzo della porta accanto
È una di quelle cose a cui non crederei mai se me la raccontassero, ma è successa a me, per cui so che è vera. Ecco, forse solo la mia testa con il tempo ne ha romanzato un po’ i dettagli, ma è successa, lo giuro.
Era una notte afosa di fine luglio o inizio agosto al massimo. Una di quelle notti cariche dell’umidità di una breve pioggia estiva che, invece di rinfrescare, non fa altro che appesantire l’aria e renderla irrespirabile. Avevo tredici anni, questo me lo ricordo bene, e con quelli anche tutta la goffaggine che li co ntraddistingue. Un ragazzino che agognava di arrivare alla fine della pubertà per levarsi di mezzo quella manciata di chili in più che lo dividevano dall’avere un fisico che si potesse prendere sul serio.
Era da un po’ che avevo preso un’abitudine. Non mi era mai piaciuto rinchiudermi in camera mentre i miei genitori litigavano; di solito era mio padre che iniziava e mia madre che finiva. Quando ero ancora un bambino mi rifugiavo nella mia fantasia e facevo finta che quelle urla appartenessero ai nemici alle porte del mio regno che avrei dovuto combattere, ma con il passare degli anni capivo il significato di quelle parole e allo stesso tempo non avrei voluto saperlo. Così iniziai a cercare metodi per isolarmi. Prima un cuscino sopra la testa, poi la musica di un lettore cd, per un po’ mi rinchiusi anche in un armadio con una pila e un libro concentrandomi sulle parole stampate leggendo a voce alta. Poi, con la primavera, decisi che il modo migliore per estraniarmi da quella situazione fosse uscire di casa, sgattaiolando dalla porta di servizio. Ero convinto che fuori non mi avrebbero raggiunto le loro urla. Il problema era trovare un posto che fosse tutto mio dove poter stare per i fatti miei, in pigiama. Potevo andare al parco e nascondermi in qualche giostra, potevo accucciarmi dietro un muro e approfittare del buio della notte, ma per qualche strana ragione pensai fosse un’idea geniale sdraiarmi in mezzo alla strada di fronte a casa. A volte mi mettevo lì a contare le stelle, a volte cercavo le costellazioni, anche se la maggior parte me ne stavo sdraiato senza pensare a niente. E piangevo.
Ora, non mi prendete per pazzo o per un ragazzo con tendenze suicide, per favore. Non lo facevo certo perché mi aspettassi che una macchina passasse e mi falciasse via, non era questo. A dire il vero non saprei perché mi sembrasse il posto migliore dove passare qualche quarto d’ora con le orecchie libere da cattiverie. Credo sia giusto specificare a questo punto che vivevo in un piccolo paesino di provincia immerso nei campi di riso e granturco, per cui la possibilità che ci fossero macchine lanciate a tutta velocità dopo la mezzanotte era altamente improbabile. Come la possibilità che ci fosse qualche pazzo che decidesse di trasferirsi a vivere nel mio paese. Eppure era successo.
La finestra della mia stanza dava proprio sulla strada dove ogni tanto passavo le mie nottate insonni e su una casa sfitta da anni. Fu una vera sorpresa quando quell’inverno qualcuno si trasferì lì. Madre, padre e figlio, proprio come la mia famiglia. Era per questo che nella mia giovane testa li immaginavo come le nostre controfigure in un film sulla mia vita. Non che avessi ancora deciso il genere.
Mi incuriosivano. Ogni tanto li spiavo, lo ammetto. Mi mettevo in un angolo della mia finestra e osservavo cosa accadeva dentro quella casa con vivo interesse: il padre cucinava, la madre non era quasi mai presente, il figlio passava i pomeriggi in camera a suonare la chitarra o a scrivere su un quaderno.
Pensavo sarebbe stato facile conoscerlo, ma i miei genitori non avevano alcun interesse a svolgere i loro doveri di buon vicinato e a scuola andava nella classe dopo la mia; se a questo ci aggiungete la timidezza cronica, vi sarà facile capire come l’unico modo che avessi per conoscere la mia controfigura fossero quei momenti di vita privata che riuscivo a rubargli di nascosto dalla mia camera.
All’inizio lo invidiavo. Mi sembrava una casa così tranquilla, la sua, e avrei tanto voluto sapere cosa si provava a vivere in un contesto del genere. Poi però qualcosa si spezzò. Piccole cose, certo, ma che catturarono la mia attenzione e fecero crescere l’interesse e la preoccupazione per un perfetto sconosciuto. Porte sbattute, pugni sul tavolo, toni di voce più alti del normale. E alla fine quella sera d’estate.
I miei stavano litigando, tanto per cambiare, e io ero uscito di casa. La strada era ancora bagnata per la pioggia che era caduta poco prima, ma non mi interessava. Il caldo era insopportabile, ero già sudato per i fatti miei, un po’ d’acqua non avrebbe peggiorato la situazione. Così mi sdraiai e chiusi gli occhi. L’asfalto sotto di me, il cielo nuvoloso sopra.
Quella notte stavo piangendo, come tutte le sere prima di conoscerlo, e cercavo di concentrarmi sulle nuvole di pioggia che non avevano ancora abbandonato il cielo sopra la mia testa. In quella quiete, le urla dei miei genitori erano un semplice rumore di sottofondo.
Poi qualcosa di familiare attirò la mia attenzione. Erano i suoni. All’inizio mi sembrava soltanto l’eco delle urla che ormai conoscevo a memoria, ma poi capii che era qualcos’altro. Ascoltando con più attenzione notai che le parole non erano le stesse e anche le voci erano diverse, seppur di poco. La casa dei nuovi vicini emetteva gli stessi suoni della mia, solo che erano al contrario: erano sempre due adulti, ma in questo caso era la donna che urlava e si lamentava e l’uomo che singhiozzava e
pregava. Non ci avevo mai fatto caso prima.
In un’altra occasione mi sarei voltato verso quella casa e avrei iniziato a spiare avidamente cosa stesse succedendo all’interno, spinto dall’atavica curiosità umana, ma quella sera ne avevo abbastanza di gente che litigava.
Mi ci volle un attimo per accorgermi di non essere solo. Sentii soltanto i suoi ultimi passi prima che si sdraiasse anche lui in strada con la testa a pochi centimetri dalla mia e il corpo nel verso opposto.
«Che stai facendo?» mi chiese tirando su con il naso dopo esserselo asciugato con il polso.
Non gli risposi; o meglio, scrollai le spalle e fu una risposta sufficiente.
Nessuno dei due fece nulla per nascondere le lacrime, però nel giro di qualche minuto quelle finirono. Per un po’ rimanemmo sdraiati a terra senza dire niente. Guardavamo il cielo che nel frattempo era tornato limpido e ogni tanto ci lanciavamo qualche occhiata di sfuggita, tanto per essere sicuri della presenza dell’altro.
«Ho solo bisogno di un amico» disse all’improvviso. «Anche solo per una sera.»
«Che ne dici di un amico per il resto della tua vita?»
Lui si voltò verso di me e mi chiese se ero serio.
Ci sono cose della nostra vita che non possiamo rivelare a nessuno, che siamo costretti a tenere per noi. La mia situazione in casa in quel periodo, ad esempio. Ma avere qualcuno vicino che condivideva il mio stesso segreto mi aveva fatto capire meglio di qualsiasi testo di autoaiuto come non fossi solo e che insieme potevamo superare quell’uragano. Da amici. Il nostro patto fu suggellato dal suo braccio sopra il mio petto. Un abbozzo di abbraccio che voleva dire “grazie”.
E poi dal suo nome.
Daniel.
(continua)
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