“The Foursome” (1 di 3). Scopri il racconto di Ilaria Padovan nell’antologia “Pelle”

L’edizione 2018 del contest Giovani Scrittori IULM ha dato alla luce Pelle, l’ennesima antologia di racconti nata in Ateneo per finire sugli scaffali delle librerie (clicca QUI per saperne di più).  

Ed ha, il progetto curato dal prof. Paolo Giovannetti, visto partecipi decine di studenti, che hanno messo a frutto la propria creatività nella stesura delle loro storie.
Racconti d’amore, di fantascienza o semplicemente di fantasia: il risultato è una silloge che accontenta praticamente tutti, a partire da chi ha fatto da regista nella sua impaginazione (QUI la nostra intervista ad uno dei curatori).
Per questo Radio IULM – voce degli studenti, prima che radio delle arti – ha pensato di proporre alcuni dei racconti contenuti in Pelle, con una serie di pubblicazioni sul sito che vi accompagnerà per qualche settimana ogni lunedì, mercoledì e venerdì, fino a luglio inoltrato.

La seconda  storia che condividiamo con i lettori di Radio IULM (QUI quella precedente) è firmata da Ilaria Padovan. Si intitola The Foursome ed è qui sotto disponibile la parte 1 di 3.

The Foursome

“Là, dove senti cantare, fermati. Gli uomini malvagi non hanno canzoni.”
— L. S. Senghor

– Te lo ricordi di quell’estate passata a guardare l’atletica leggera in tv?
Il giallo ruvido delle pagine di Calvino e Pavese? O la polvere che respiravi ogni volta?
– L’estate qui ha sempre lo stesso odore.
– Il verde delle persiane che non si aprono più?
– Il rosso dei fichi maturi, come carne viva. E affondarci dentro i denti, finché non sanguinano le labbra.
– O le zanzare del Newstreat e i vodka&redbull al Portichetto?
– Birre in Colonne. E i cocktail di Marcone al Geckos.
– Io mi ricordo. Io me lo ricordavo di te. E di tutti viaggi sul 6 uscendo dal Cope. E di me che non capivo niente. E di te che facevi i pompini in macchina in Borgo. Anche degli anni dopo, quando ci incrociavamo solo alla notte bianca in centro, quando mi sembravi così lontana
e io stavo dietro a una puttana a cui devo il vizio che mi ha portato fin qua. Forse l’avevi anche conosciuta, che qui ci si conosce tutti. Aveva una female band, me le sono scopate tutte dopo.
Ma tu te lo ricordi perché io e te non abbiamo mai scopato?
– Guarda che eravamo vergini.
– Avremmo dovuto. Baciavi bene.
– Suonavi bene.
– Ho venduto la mia Fiesta sai, non ti ci ho mai portata. Te la ricordi quella sera quando sei tornata, per un paio di giorni dicevi, e hai messo in ordine il mondo, tu che la velocità a cui farlo la scegli da sola. E hai salutato Vaan, come non farlo del resto. Lui che adesso non va nemmeno più alle feste dei collegi. E hai salutato me, che avresti potuto benissimo non farlo. Una birra al Borgo Calvenzano, ti ricordi?
– Mi ricordo l’Officina di quell’estate, quando le Fonderie erano chiuse. E i racconti dal Giappone.
– Eri arrivata con i tuoi tatuaggi, con il tuo non c’entrare più nulla qui. Forse era così anche quando ci vedevamo al Cantiere ogni venerdì. E io mi ricordavo di te e che mi eri mancata. Sei arrivata e quella notte l’avrei fatto l’amore con te, anche in macchina, anche in piedi. Proprio dietro la Buca, che di sicuro quella te la ricordi. E invece siamo qui adesso. Seduti in riva al fosso, come cantava qualcuno. 

– Non avresti dovuto venderla.
– Non avresti dovuto nemmeno tu. Ma lo sai di Cecche che va a fare il militare?
– Tu non lo conoscevi. Cecche è stato di un’altra dimensione. Quella fatta dal Soleluna
e dalla mia Punto verde. Quella delle prime volte, delle bottigliette di Raki portate come souvenir. Quella era ancora la dimensione fatta di cartoline e cartine. Di Felopere addormentato sui divanetti neri e luridi, con una camicia rosa, il viso da bambino,
e il portafogli rubato. Non capivo come facesse ad addormentarsi così, non l’ho capito nemmeno anni dopo come si fa. Di Centa, che è l’unico di noi ad aver fatto qualcosa di buono.
– Te la ricordi quella volta in macchina che tornavate da Alassio e lui stava seduto dietro, tra le braccia Alessia?
– La pietà. E casse di vodka. Erano la cosa più bella che avessi mai visto allora.
– Era la notte che quella vostra amica si è andata a schiantare in macchina.
[Silenzio]. – Tu non lo conoscevi Cecche.
– Ma tu ricordi.
– Ma credo anche che ricordare non serva.
Non cambiano i loro sorrisi, le feste dei diciotto e i cappotti appesi, i limoni sbagliati di quel Capodanno, il nascondersi a piangere nel bagno di Scienze Politiche con l’ombrello rosso in mano. Non cambia il fiume a cui prima o poi tanto sarei dovuta tornare, o la Minerva severa e austera come il colonnato del Carducci, o il Castello per imparare la primavera.
Non cambia Milano, dove ho capito che i tassisti sono tutti romantici, dove puoi perdere il cuore sulla rampa di un garage quando ti prendono per mano. Perché Milano è bella, di quella bellezza che si ha solo quando si sa di stare per essere lasciati.
E non serve ricordare della casa dove Let it be suona per far perdere tempo al vento. Nemmeno il barista che risponde a tutti allo stesso modo dietro al suo bancone fatto di luci e allucinazioni. Che l’ultima volta non si capisce mai, si pensa sempre che i treni riportino anche indietro.
Non cambiano le colline del Monferrato e la delusione racchiusa tra i palmi di un padre, non cambiano le vendemmie o gli altoparlanti di Rimini o l’odore di pasta al sugo di Riccione. Non cambia che i fuochi del paese vicino siano sempre più belli, ma a vederli i nostri, alla fine, ci si va lo stesso.
Non cambia quel treno:
Capaccio-Roccadaspide.
Agropoli-Castellabate.
Omignano-Salento.
Vallo della Lucania-Castelnuovo.
I parcheggi, le scalinate, le curve di Santa Margherita, l’ombra di Bergeggi e tutte le discese con le loro salite.
I polmoni a spezzarsi sotto le stelle di Casal Velino, le unghie a scheggiarsi nei pressi di Acciaroli, il cuore a liquefarsi in inchiostro sotto un soffitto di stelle fluorescenti.
Avrei voluto ascoltare ildondolio fluido delle loro gambe in piscina nella decadenza d’agosto. Nel buio di un giardino illuminato da lampi di accendini e accordi minori di pianoforte. Loro tre che se ne stanno lì, da sempre: in bilico sul bordo e sulla vita. I bicchieri a scortare la bottiglia di gin dimenticata sul tavolo in legno, impallidito anche lui.

– Questo sì? Avrebbe avuto senso?
– Invece, sto qui seduta con un musicista che una volta aveva i capelli lunghi e biondi, gli occhi grandi, la chitarra elettrica e un bassista più sveglio di lui. Sarà che abitavi dietro il cimitero. Sarà che limonare a sedici anni bastava. Sarà che comunque era presto per vendere la Fiesta.

1. (Caf)

– Man, devo fare benzina perché siamo a secco.
– Beh c’è un distributore qua vicino.
– Ottimone! Dove?

– Eh…praticamente per entrare in via Savona, però dal lato…, insomma, venendo da Cadorna.
– Eh?!? Via Savona venendo da Cadorna, cioè?
– Beh sì, dal quel lato, insomma via Savona si può prendere da due punti diversi no? Se arrivi da Cadorna vedi il distributore.
– Jajajaja ci fai da navigatore?
– Sì, non è che sia proprio il mio forte. L’avete notato…
– Man, eccone uno.
– Ecco sì! Quello che dicevo io!
[Ridono].

Ridiamo e mi chiedo da dove arrivi questa ragazza che praticamente senza conoscerci viene a far serata con noi. E ci parla come se fossimo cresciuti insieme. Dice dal profondo Veneto, ma credo da molto più a est.

L’ho conosciuta in casa sua, insieme a mezzo del suo ufficio e senza aver ancora ben capito cosa ci facessimo noi lì.
Basso l’ingresso, grande la casa, storto il trofeo di unicorno a troneggiare sul camino. Strani loro e anche noi, lì, in mezzo.
Ubriaco il ragazzo che è rimasto venti minuti sotto casa a gridare il suo nome perché lei non sentiva squillare il telefono. Camicia azzurra, come gli occhi. Ve, a quanto pare, ne aveva sentito parlare. Mentre un barbuto nerd la faceva congelare sul balconcino raccontandole di arrampicate e scarpate, lo straniero versava vino rosso. Nei bicchieri. Sulla tavola. Nelle piante. Dovunque.
Me lo raccontò dopo, un sacco di tempo dopo, della scaletta in metallo che portava al suo soppalco, del Müller fresco e Paolo Nutini in sottofondo. Me lo raccontò troppo tempo dopo di quella sera in cui imparò a dir di no e lui rimase sulla porta della casa di ringhiera tutta la notte, perché voleva guardarla tornare. Allora non lo sapevo.

Era ancora abbronzata. Visibilmente sobria e con una luce dentro che non sfuggiva.
Quasi per tutta la sera ero rimasto incantato dalla stupidità della bionda amante del nostro capo. Oddio, ormai ex capo, visti i recenti licenziamenti. Ma quando scesa dalle scale a chiocciola si era fermata al nostro trio, il petto aveva dimenticato un battito. Avrei voluto averla io la sua spontaneità. Soprattutto il suo sorriso. Capivo perché Ve non faceva altro che parlarmi di lei e dei suoi casini. Che tutti li sapevano poi, lì, quella sera. Ma capivo anche perché c’erano. Sorrideva e io capivo tutto.
Che me ne dovevo andare perché tre anni in un posto dove non ti faranno mai un contratto decente non è il posto per me. Che dovevo smetterla di fare il romantico con le mie studentesse – che tanto scrivere lettere d’amore non funziona mai. Che dovevo dimenticare davvero la mia ex e ricominciare a scopare. Che era ora di darsi una svegliata insomma.

Ricordo con i miei fratelli e i miei genitori che da piccoli ogni tragitto in macchina era un karaoke. Che sono sempre stato stonato. E che è da allora che non canto.
– Quindi? Cantiamo?
Apre Spotify, si sporge verso i nostri sedili.
– La cintura!
– Nah, dai solo un attimo, che sennò non vi sento bene.
E ride. E ridiamo.
– Cosa vi metto?

Ricordo la prima volta che siamo usciti e siamo andati a giocare a biliardo in via Vigevano.
Il Jolly. Ogni milanese ci lega la gran parte dei ricordi della propria adolescenza. Le bigiate. Le bionde. Le paglie. Le stout. Tutto nascosti nel retro che non ti aspetti. Ma noi non siamo di Milano e semplicemente non lo conoscevamo. Non so come facesse lei a sembrare di ogni posto, come i fiumi. Non avevamo nemmeno bevuto molto. Due pinte e un paio di partite: una scommessa persa.
– Man, avete perso.
– Penitenza!
– Sì, ok, però una cosa che avreste fatto anche voi altrimenti non vale eh.
– Mm, no Ve, allora niente sesso orale.
– Prego?!
– Penitenza, penitenza.
– Massì dai: un bacio.
– Un limone?
– Eh sì, un bacio, un limone. Come volete.
Non la conoscevo nemmeno da tre ore e i miei compagni di trio avevano deciso che la dovessi baciare. E lei non sembrava particolarmente preoccupata della cosa. Non che fosse necessario. Per carità, è un bacio e siamo tutti grandi e non significa nulla. Però io sono sempre stato un po’ il bambino intelligente, mai quello bello. Mai quello abituato a fare stragi di cuori. E lei non era bella. Ma brillava come le mine in mare aperto.
Ci avvicinammo con le stecche ancora in mano.
– No.
– No?
– Non lo faccio.
Non la conoscevo nemmeno da tre ore e non lo sapevo che potesse cambiare così repentinamente umore. Si era fatta scusa di ombre profonde come tagli sui polsi.
Mi sfiorò le labbra distratta da chissà quale pensiero, cogliendo di sorpresa anche me.
– No, ma cos’era quello??
– Man, non è un limone sta roba!
– Va beh, avete detto un bacio, non che bacio.
So che hanno ragione. Non ci siamo nemmeno assaggiati. Però è strano, mi sento comunque in imbarazzo. Io che non ho mai limonato con nessuno nemmeno in discoteca.
Mi guarda. Non parla.
Mi fido dei suoi occhi scuri. Eppure sono mesi che vorrei baciare Ve e non ne ho il coraggio. Eppure sorride e io so cosa devo fare.
Mi appoggio alle sue labbra sottili, le mani a racchiuderle il volto, sforzandomi di non pensarci a cosa sto facendo. Infila le dita tra i miei capelli. E ci baciamo. Per davvero. Non so per quanto. L’avevo immaginato tante volte, tre metri a separare le nostre scrivanie in ufficio. Non l’avevo immaginato così. Lei mi segue. Io non penso. Continuerei, eppure è ancora sbagliato.

– Jajajajaj per quanto andranno avanti secondo te?
– Non lo so, ma si aspettavano da tanto.
[Silenzio].
– Va bene, allora andiamo?

La prima volta che siamo usciti, dopo il biliardo, siamo andati al Crystal. Il Crystal è il karaoke sui navigli. C’è sempre un tizio che ci somiglia ma è comunque identico a Renato Zero. Il Crystal è uno dei posti in cui beviamo più tequila che in qualsiasi altro locale. Anche peggio degli shottini di Sapparo. E anche se nessuno vuole cantare, cantiamo. Il Crystal è il momento in cui, rimasti da soli, lei mi guarda seria:
– Ti piace.
– Fisicamente?
– No. Ti piace sul serio.
Poi sorride. E torna Jo con altra tequila.
E torna Ve.
E io capisco.
E il karaoke suona Maledetta primavera e io non so le parole ma basta leggerle e sono stonato, ma siamo ubriachi e sento un calore strano che è sì bruciore di stomaco, ma anche un reflusso di felicità.

– Quindi? Cosa vi metto?

(continua)

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