“Dio è morto”? Cinquanta anni dopo Guccini racconta ancora una generazione

Dio è morto”. Cinquantun’anni fa Francesco Guccini scriveva per i Nomadi la canzone manifesto della sua generazione. Raccontava, con malinconica chiarezza,  il cammino intrapreso da molti giovani italiani dai moti del ’68 e continuato per il resto degli anni ’70.

Erano gli anni dell’assassinio di Aldo Moro, “il fantasma di questa Italia senza pace” secondo le recenti dichiarazioni del figlio Giovanni

Anni, questi, che abbiniamo inevitabilmente alle agitazioni sociali, alla lotta di Peppino Impastato, alle droghe, al rock e alle Brigate Rosse. Soprattutto durante questo marzo che ci ricorda il cruento omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Anni che tuttavia, a noi circondati da ogni tipo di tecnologia e comodità, sembrano incredibilmente distanti, velati dalla coltre del mito.

Eppure, ancora oggi, ritrovare questo capolavoro del folk vagando su Spotify, ha qualcosa di commovente, che trascende la semplice malinconia per la bella musica. E’ una sensazione di speranza e smarrimento assieme, che in qualche modo ci avvicina a quegli anni. Cosa è cambiato da allora? Le nuove tecnologie ci distinguono davvero da quella generazione? La politica odierna può paragonarsi a quella dell’epoca?

Abbandoniamo per un momento gli stereotipi che ci suggeriscono immediatamente gli anni ’70. Mettiamo da parte i cortei in piazza, le bandiere rosse e i capelli lunghi,  provando invece a lasciarci trasportare dalla poesia di Guccini e dalle note della sua chitarra. Abbandoniamo gli stereotipi e cogliamo l’essenza più pura di questo periodo: il cambiamento.

È questa un’Italia che ha da poco abbandonato gli entusiasmi del boom economico. Sta raccogliendo suggestioni da dentro di sé e dal resto del mondo. Sta tentando di ridefinirsi e trovare il proprio posto in quello squilibrio tra la modernità delle idee che la animano e le condizioni nelle quali versa la maggior parte della sua popolazione. Questa generazione rimane un po’ troppo idealizzata nella memoria, quando si deve guardare all’attualità delle spinte centrifughe che l’animavano.

Come non pensare, ascoltando la seconda strofa della canzone, al femminismo, alle legislazioni sull’aborto o sul divorzio, alle lotte del partito radicale? Proprio oggi che sorge il movimento #MeToo, per scardinare le disparità di genere.

La libertà era l’obiettivo. Talvolta sfociata in un eccessivo libertinaggio sull’onda delle euforie. E’ stata pur sempre però un passo avanti su quella strada che ci ha sottratto dai vicoli delle convenzioni e delle “fedi fatte di abitudine e paura“. E’ un’importante eredità quella che ci è passata nella corsa al progresso, non semplice da ricevere in quanto travisabile. L’emancipazione che quel periodo ci ha consegnato deve essere usata con cautela. I valori passati devono sapersi evolvere. Ciò che oggi si percepisce è lo smarrimento dei giovani in “una stanca società”, che non possono più affidarsi alla memoria di idee che non hanno più validità nel loro tempo. Devono saperne infatti generare di loro per trovare la loro vera identità.

Era quella infatti una generazione che brancolava nell’incertezza. Che non poteva più affidarsi ciecamente a quei “miti della patria o dell’eroe“, rifiutandoli con conseguenze spesso inutili ed estreme. Che sapeva individuare il male, desiderava combatterlo, ma allo stesso tempo si riconosceva inerme tentando di fuggirgli “nelle notti che dal vino son bagnate e nelle stanze da pastiglie trasformate”. Proprio in questo contesto, però, le parole di Guccini si levavano come un inno alla precarietà, all’insoddisfazione dei giovani in agitazione. Che tentavano di progredire, ma non riuscivano ancora a trovare il nord.

Forse questa precarietà è avvertita anche da noi. Non è necessario consultare dati o statistiche per accorgersi che la qualità della vita in Italia è nettamente migliorata negli ultimi 50 anni. Tuttavia ancora oggi, nonostante il benessere diffuso, non riusciamo a sentirci appagati. Forse dopo sessant’anni dalle sollevazioni del ’68 ancora per la maggior parte di noi “Dio è morto“. E’ morto nelle delusioni politiche e nelle strenue rincorse al successo. E’ morto nei rinnovati miti del possesso e dell’apparenza, nelle discriminazioni e in quella violenza che, con i nuovi mass media sentiamo sempre più vicina a noi.

Tuttavia “Dio muore per tre giorni poi risorge“. “In ciò che noi crediamo Dio è risorto” cantava allora Guccini. Abbiamo forse anche noi giovani d’oggi bisogno di ritrovare qualcosa in cui credere. I nuovi generi musicali, i giovani attori e i vestiti di marca hanno oggi molto più appeal di ideali politici. Come però anche la religione Islamica o le filosofie orientali, che sanno dare spiegazioni a ciò cui i miti occidentali non sanno evidentemente più rispondere. Fino ai nuovi estremismi, le casse di risonanza delle nuove insoddisfazioni.

Se Guccini riscrivesse oggi questa canzone, la proseguirebbe di sicuro in modo differente. L’ingenuità sognatrice delle sommosse studentesche si è esausta nel realismo disincantato, i tempi sono cambiati. Non muterebbe però il finale. In quanto se anche per i giovani d’oggi “Dio è morto”, allo stesso modo Dio può risorgere. Dobbiamo soltanto imparare a districarci tra i falsi miti del nostro tempo, a sottrarci alla tentazione di fuggire o di adagiarci alle facili promesse di “Andare via per quelle strade che non portano mai a niente”. E forse ritroveremo noi stessi.

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