È possibile produrre arte attraverso un videogioco? È questa la domanda per nulla banale a cui ha cercato di rispondere il Milan Machinima Festival. Evento, questo, tenutosi il 16 di marzo in IULM ed associato al Milano Digital Week.
Il Machine Cinema è una tecnica di produzione di cortometraggi tramite videogiochi. Meglio conosciuto come Machinima, nasce dall’esigenza di alcuni utenti di portare il videogioco su un livello differente rispetto alla semplice esperienza interattiva.
Di questo genere troviamo le prime tracce già nel 1996, con la creazione dei primi cortometraggi realizzati su Quake, sparatutto in prima persona. La popolarità gli è però consegnata nel 2005, anno di nascita di YouTube. La piattaforma ha reso infatti possibile la condivisione e la diffusione delle opere prodotte.Questo ha segnato il punto di non ritorno per un’industria culturale divenuta da lì in poi autonoma e sempre meno di nicchia.
Sfruttando le meccaniche di inquadratura e movimento di videogames come Grand Theft Auto, che offre in oltre la possibilità di esplorare un’intera città, e The Sims, simulatore di vita quotidiana, diversi artisti hanno da allora costruito cortometraggi che riflettono su argomenti tutt’altro che banali.
E’ per esempio ricorrente il rapporto, spesso conflittuale, tra l’individuo e la società in cui vive, spesso declinato nella violenza o nella solitudine. Come sottolinea una studentessa del Master of Arts in Game Design dell’Università IULM: “Tutti questi artisti utilizzano il Machinima come strumento narrativo e di indagine che mette al centro l’uomo e lo descrive, partendo dal particolare fino ad arrivare al generale”.
La caratteristica fondamentale dei machinima è dunque la rottura delle modalità di fruizione classiche del videogioco. Privandolo della sua interattività questo viene reso capace di veicolare messaggi diversi, di creare effetti di senso alternativi. Come scrive Matteo Bittanti, docente IULM e direttore del Master of Arts in Game Design, in un suo articolo del 2016 : “il machinima sembra un videogioco, ma non si comporta come tale. I suoi creatori hanno rimosso lo “specifico” del medium, il suo carattere peculiare e distintivo: l’interattività”.
Il machinima si può dunque definire un prodotto della cultura del remix, nato al crocevia di vari media pre-esistenti. Ciascuno di essi aveva ruoli differenti che sono stati riformulati nelle nuove esperienze. Questo per aprire perfetti processi di rimediazione, secondo la teoria di Bolter e Grusin ispirata dagli studi di Marshall McLuhan.
Secondo quest’ultimo, un guru per tutti gli studiosi dei media ben prima dell’esplosione dell’industria del videogame, “il contenuto di un medium è sempre un altro medium”. Ed il machinima non fa certo eccezione, riuscendo a integrare alla perfezione media come cinema, fotografia e animazione in qualcosa di originale. Citando ancora Bittanti: “da un lato è una forma espressiva parassitaria […] dall’altro, il machinima è qualcosa di completamente nuovo”.
Può rappresentare inoltre un mezzo di valorizzazione del mondo videoludico, da tanti spesso considerato secondario, privo di contenuti e a volte perfino diseducativo. È ciò che auspicano gli studenti del master, intervistati riguardo il valore che il machinima può avere. “Troppo spesso i videogiochi subiscono critiche ingiuste, – raccontano. Vederli rivoluzionati e riutilizzati in altri modi gli conferisce un valore maggiore, artistico prima ancora che di intrattenimento.” Le potenzialità e le espressioni di questa forma d’arte sono dunque molteplici: dare valore ai videogiochi e ragionare su temi esistenziali tramite un lavoro di rielaborazione di materiali pre-esistenti.
Un’operazione, insomma, simile a quello che in arte fu il ready made, il quale usava un punto di vista diverso per vedere la quotidianità. O se vogliamo persino un nuovo collage nel perfetto stile della pop-art, riproposto però con un linguaggio digitale.
Il machinima è tutto questo e molto altro. Ed ha ancora molta strada di fronte. Questa l’ultima parola del Milan Machinima Festival.