Sono il simbolo di un paradosso, gli abiti di Rick Owens. E si muove proprio tra oppressione e liberazione, tema della nuova puntata di Flanerie (a fondo pagina il podcast da ascoltare)
l’opera dell’artista statunitense. Scoprila nel personale punto di vista di Annalisa Maria Caprioli
Tic, tac, tic, tac … Sono già le 2.00. Non riesco ad addormentarmi. Tic, tac, tic, tac… Quando mai riesco ad addormentarmi? Odio dannatamente il ticchettio dell’orologio. Durante il giorno rimane tacito e cheto, nascosto da rumori più prepotenti per poi impadronirsi, di notte, del silenzio del mondo.
Ma gli altri, come fanno a dormire? A me la notte sembra più rumorosa del giorno. Sarà perché di notte, nel letto, mi sento braccata dai pensieri. L’orologio continua a ticchettare indifferente, sul comodino e la luna bagna di luce il volto di lui che dorme. Odio dannatamente l’orologio perché è troppo preciso: le lancette sono lì, esattamente dove dovrebbero essere, in quel preciso istante. Ed in quell’istante, io sono esattamente dove non dovrei essere. È che sono un essere maldestro e poco equilibrato. Se mi osservaste bene, notereste che ogni mio gesto tradisce il desiderio, l’insoddisfazione e l’inquietudine.
Oggi, in una massa di anime fintamente stabili, ho però incontrato un’anima affine alla mia: Rick Owens. La sua mostra Subhuman, Inhuman, Superhuman mi sembra tanto una sintesi dell’esistenza. È l’espressione più intensa dell’equilibrio che noi tutti stiamo cercando, sempre barcollanti tra i nostri fallimenti, successi, la costruzione di chi vorremmo essere.
Quella di Owens è una presentazione artistica e non allo stesso tempo, quando gli abiti si fanno assolutamente insopportabili alla vista. Alcuni pezzi sembrano grezzi, selvaggi e quasi scioccanti come una dichiarazione all’aspirante mondo civilizzato. Una giacca si spoglia per rivelare pantaloni senza cerniera e stivali alti e spessi in pelle.
Per non parlare dei capelli dei manichini, che cadono dritti ma selvaggi, imprigionandone la faccia. Colori improvvisi e inaspettati, shock deliberati nella modellatura degli abiti da uomo per concentrare l’attenzione sul pene. Owens ripensa la grammatica dell’abbigliamento, creando curve dove le curve non sono pensate per esserci. Stravolge la silhouette del corpo ma, al contempo, mantiene costante un elemento classico e centrale come il cappotto. In un’evoluzione apparentemente insensata si passa da forme aggraziate e simmetriche a un’essenza barbara e cruda.
A me sembra di indossarli perennemente, gli abiti di Rick Owens: in bilico tra la calma elegante a cui aspiro e i continui danni che faccio, lungo la strada. Così la sua collezione si declina in un contrasto ossimorico tra la tenerezza e un ego furente. Owens li definisce come un’idealizzazione adolescente, seguita dalla sua inevitabile sconfitta. Ma non fatevi ingannare dal malessere che forse susciterà in voi questo viaggio nell’inferno che è la sua mostra. Solo un sognatore può arrivare a tale grado di empatia con il mondo, perché soltanto una sovrabbondanza di sogni comporta un crescente potenziale di incubi. La sua arte non è altro che la rivelazione dell’esile equilibrio del mondo mistificato da un’esile saldezza.
Ah, quant’avrei voluto essere un orologio! Lui sa che dopo il cinquantottesimo secondo deve andare avanti a segnare il cinquantanovesimo. È sempre così. Ogni notte, nella mia testa, accresce quest’intreccio di fantasie, finché la sonnolenza non si chiude con un abbraccio incurante su qualche vivida scena. Silenzio.
Il podcast della prima puntata di Flanerie, in onda venerdì 2 marzo